Last time around.

(long fic yaoi in prosecuzione).

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  1. meishells‚
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    Come promesso, ecco qui il capitolo.

    Disclaimer: Tutto ciò che è scritto di seguito è purametne inventato senza nessun riferimento alla realtà dei fatti e niente di ciò che è descrito è a scopo di lucro.



    01: "Nice to meet you."

    1° Luglio di otto anni prima.

    “Brucia, brucia, brucia!”

    Le risate che si scatenarono intorno a lui mentre, con i piedi infuocati, correva sulla sabbia furono l’ultimo dei suoi pensieri. Quando davanti a lui apparve -finalmente, aggiunse con le lacrime agli occhi- il mare, non si fermò, correndo fin quando si ritrovò con le caviglie a mollo.

    Si lasciò sfuggire un gemito di puro sollievo e quasi si convinse di aver visto del fumo evaporare dalla pianta dei suoi piedi.

    Si okay, il mare era bello, l’Italia pure e, detto sinceramente, le ragazze erano anche delle gran gnocche, ma a lui quella vacanza proprio non andava giù. In quel momento sarebbe dovuto essere in giro per la Germania con la sua squadra di basket, fiero di essere arrivato fino ai regionali. E invece no, suo padre lo aveva spedito in vacanza –da leggersi anche punizione- da sua zia, che poi quella vacanza per chiunque altro all’infuori di lui poteva essere considerata spettacolare, quelli erano dettagli.

    Suo padre sapeva come giocare le sue carte.
    E per cosa lo aveva spedito li, poi? Perché era stato bocciato.

    Si guardò intorno notando qualche bambino che, ridendo, lo indicava.

    “Bastardo.” digrignò i denti pensando a quanti più insulti potessero addirsi a suo padre.

    Lui odiava il mare.

    *



    “Guarda quel tizio Bill, è più sfigato di te! Da non crederci.”

    “Helena, smettila di prendere in giro tuo fratello!”

    La donna allungò un braccio oltre il suo asciugamano dando un gentile scappellotto sulla nuca della figlia, ricevendo in cambio una pernacchia. Tutto questo sotto lo sguardo atterrito di Bill, malamente seduto sotto l’ombrellone e con le carte in mano.

    “Davvero, sto iniziando a convincermene anche io, mamma.”

    “Andiamo Bill non dire queste sciocchezze .”

    Il ragazzo passò velocemente la carta sull’asciugamano della sorella e storse le labbra quando questa, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro, toccò il mazzo urlando “merda!”.*

    “Helena! Bill! Che giochi sono questi?”

    La signora vide ridere entrambi i figli e li guardò con la bocca spalancata: non era una parolaccia in italiano, quella?

    Mentre la bambina, ancora con il sorriso in volto, le spiegava che quel gioco glielo aveva insegnato il portiere dell’albergo quella mattina –che a detta del figlio più grande era un tizio veramente gentile e figo- Simone si spalmava la crema sulle spalle, lasciando però una leggera patina bianca, il sole picchiava davvero forte lì!

    Inforcò gli occhiali da sole, si mise comoda sull’asciugamano e, con il sottofondo dei figli che ridevano urlando parolacce e la gente intorno che li guardava irritati, si addormentò.

    Più tardi, quando il sole era ormai calato ed un leggero venticello smuoveva ombrelloni e asciugamani in terra, la famiglia tedesca si era alzata, aveva raccattato le proprie cose ed aveva fatto ritorno in albergo.

    Solo la piccola Helena, però, aveva fatto caso allo strano ragazzo che prima urlava correndo come un pazzo per la spiaggia. Lo aveva visto entrare nel loro stesso albergo e si era anche fatta due risate quando lo aveva visto sbattere la testa contro il vetro della reception, che probabilmente non aveva notato, e poi imprecare a voce alta.

    È davvero sbadato, aveva osservato la bimba fissando poi i vestiti un po’ troppo larghi del ragazzo ed il piccolo zainetto da mare che aveva in spalla, poco dopo, però, sua madre l’aveva richiamata e lei era corsa via sorpassando il suo fratellone proprio mentre si accingeva ad entrare nella stanza.

    Era stata una lunga giornata quella e, mentre Simone punzecchiava Bill rinfacciandogli il fatto di sembrare un peperone umano, Helena si era infilata sotto le coperte, anche questa volta con un sorriso sulle labbra.

    Le stava proprio piacendo quella vacanza.

    *



    Quando quella mattina si svegliò, la prima cosa che vide, persino prima della luce che filtrava dall’enorme vetrata e della confusione nella sua camera d’albergo, furono gli occhi di sua zia.

    “Ragazzo sei sveglio?”

    La donna lo vide sobbalzare ed appoggiarsi con la schiena alla testata del letto, sbattere più volte le palpebre e strizzare gli occhi prima di mettere a fuoco la sua figura. Tom borbottò qualcosa di incomprensibile soffocando uno sbadiglio per poi fissare stranito la zia, comodamente seduta al bordo del suo letto. Del suo scomodo letto. Si, perché quella notte Tom era stato sveglio per ore prima di riuscire a trovare una posizione comoda e, quando si era ritrovato supino, era addirittura riuscito a contare tutte le molle della rete che premevano sulla sua schiena.

    E fortuna che quella era la suite più privilegiata, affidata all’architetto che portava avanti i lavori dell’Hotel. Si sarebbe ricordato di schernire la zia in ambito lavorativo, una volta svegliato del tutto.

    La donna lo stava ancora guardando.

    E Tom, mettendo finalmente a fuoco la sua figura, non si sorprese di trovarla già vestita e con una pila di fogli in mano, pronta a lavorare.

    “Che c’è?”

    “Oh, sei vivo caro” allungò la mano per sfiorare la guancia del nipote, ma la ritrasse quando lo vide storcere il naso “pensavo fossi entrato in catalessi.”

    Tom boccheggiò. Quella era matta, faceva forse parte della sua punizione ritrovarsi una zia esaurita?

    “In ogni caso, volevo dirti che sto scendendo per andare al lavoro. Oggi si terranno i lavori nei giardini dell’albergo, non penso di farmi viva per tutto il giorno” si alzò dal letto stirandosi fino al ginocchio la lunga gonna nera, stretta in vita.

    “Puoi fare ciò che vuoi, il servizio in camera è gratuito. . . sai, essere il primo architetto con buoni progetti in mano, ha i suoi vantaggi” aggiunse sbuffando una risatina.

    Il ragazzo, ancora mezzo addormentato, la fissava con gli occhi sbarrati. Aveva capito poco o niente di tutte le cose che la zia aveva blaterato.

    L’unica cosa che aveva percepito con chiarezza era stato lo sbattere della porta.

    *



    Era stata davvero una mattinata rilassante.

    Quel giorno si era alzato non appena il sole aveva fatto capolinea nel cielo, aveva frugato dentro il piccolo armadio a muro dell’hotel ed aveva indossato le prima cose che gli erano capitate sotto mano.

    Ora, invece, di ritorno dalla spiaggia con un secchiello pieno di conchiglie tra le braccia e i capelli appiccicati al volto per via del sudore, cominciava ad avvertire una certa stanchezza. Sbuffò e, una volta arrivato alla fine della strada, posò il secchiello di fianco a se lasciando scivolare a terra lo zaino che teneva in spalla; ci mise un po’ per trovare il cellulare sotto quell’ammucchio di asciugamani e creme solari, ma quando lo tirò fuori non si stupì nel trovare le dodici chiamate perse di sua madre.

    “Accidenti.” Si passò il braccio sulla fronte asciugandosi in parte il sudore e socchiuse gli occhi sotto i potenti raggi del sole.

    Mancava poco all’albergo dove alloggiava, quindi si rimise lo zaino in spalla ed afferrò le conchiglie: aveva deciso che sarebbe stato inutile richiamare Simone, si sarebbe accertata che suo figlio fosse ancora vivo di li a poco.

    *



    Era appena sceso dalla sua camera d’albergo ed era ancora leggermente addormentato. No, in realtà, era ancora totalmente rincoglionito e quando con passo lento e goffo varcò la soglia della stanza, adibita per fare colazione, la prima cosa che fece fu tapparsi le orecchie.

    Dannazione, cos’era quel trambusto di prima mattina?
    Che poi prima mattina non era -a confermarlo il grande orologio a muro, proprio sopra il tavolo con i vari dolciumi e bevande, le cui lancette indicavano il piccolo 12 stilizzato-; fatto sta che Tom strizzò gli occhi assonnati e si guardò intorno piuttosto scazzato.

    C’era poca gente: due o tre famiglie erano comodamente sedute davanti a tavoli apparecchiati e piccoli mocciosi scorrazzavano per la sala e intorno a Tom, ridendo e contribuendo a rovinargli i timpani.

    “Ecco il nipote del capo,” un ragazzo dietro di lui rise dandogli un rovinosa pacca sulla spalla “amico sbrigati o finirà anche il pane tostato”

    Tom sorrise confuso prima di seguire il dito del ragazzo. Il tavolo con i dolciumi.

    “Oh. Cazzo” non che avesse veramente fame, ma, seppur il dipendente di sua zia gli stava simpatico, Tom non aveva mai amato prolungare le conversazioni troppo a lungo e no, non era un asociale anzi, ma aveva i suoi tempi per metabolizzare ed istaurare un dialogo.

    E di prima mattina -a mezzogiorno- non era proprio il caso. “Ho proprio, uhm. . . fame. Ci vediamo Georg”

    Cazzo, si chiamava Georg?

    Dal sorriso che il dipendente, -coi lunghi capelli castani che a Tom sembravano richiedere molta più cura di quanto lui ne dedicasse ai suo dreadlock- gli rivolse poco dopo, penso che, si, quello era il suo nome e che non si era affatto accorto delle fregole che lui aveva.

    Tom si passo una mano sullo stomaco, accarezzandolo un volta con movimento circolare, per enfatizzare il fatto che avesse fame e poi si girò, pronto a dileguarsi.

    Forse fu un caso che proprio in quel momento, per via dei jeans troppo larghi di Tom o per la sua sbadataggine, una figura in calzoncini e con un secchiello in plastica verde pisello si ritrovò schiacciato sotto il peso del rasta.

    “Oh… uh cazzo. Ehm, I-i’m sorry.” Tom si rialzò velocemente senza nemmeno soffermarsi sulla faccia della persona che aveva travolto. Era tremendamente imbarazzato e intorno a lui poteva avvertire anche qualche risata mal nascosta.

    Due giorni, due fottuti giorni che era li e già aveva fatto abbastanza figure di merda.

    Guardò fisso la moquette rossa sotto i suoi piedi, notando una quantità industriale di conchiglie sparse su essa e altrettanta sabbia impastata ad acqua.

    “You’re welcome.” Tom, ancora rosso in volto, fu costretto ad alzare il viso ed incontrare gli occhi del ragazzo avanti a se.

    Il dipendente della zia, dietro di lui, se la rideva.

    Bill, dal canto suo, era incazzato nero. Cavolo, aveva passato una mattinata a scegliere quelle conchiglie per forma e colore!

    “So, can you help me?” continuo allungando la mano verso quel ragazzo ricoperto di tende, che spacciava per vestiti.

    Tom si grattò la guancia sentendo le guance ustionare e afferrò la mano del ragazzo, tirandolo su verso di se.
    Nel momento stesso in cui questo si spolvero i calzoncini, cercando poi di voltare la testa quanto più possibile per vedere come fosse messo di dietro -ed in tal caso avrebbe scoperto che il suo sedere era completamente zuppo e che qualche conchiglia era rimasta attaccata al costume- la gente nella sala tornò a farsi i fatti propri.

    Tom tirò un sospiro di sollievo.

    “Really, i’m really. . .really sorry.” Balbettò qualcosa in un inglese scorretto e sviò lo sguardo incazzato dell’altro ragazzo.

    Cazzo, lui aveva un insufficienza grande come quell’hotel in inglese e, va bé che era una lingua internazionale, ma quello straniero non poteva pretendere poi molto da Tom.

    “No. Problem.” Tom lo vide girarsi e sussurrare qualcosa nell’orecchio di una bambina con luminosi riccioli biondi, che si inginocchio aiutandolo a raccogliere le conchiglie.

    Non sapeva davvero se scappare, ormai intimidito più che mai da quella situazione, oppure continuare a scusarsi come uno scemo.

    Il ragazzo moro rialzò lo sguardo su di lui e lo fissò come a dire cosa diamine ci facesse ancora li poi passò velocemente la mano sulla pavimento cercando di spargere la sabbia. Pensava forse che cosi sarebbe andata via?

    Sembrava decisamente poco esperto nel pulire e nessuno li intorno aveva la minima intenzione di aiutarlo, quindi Tom si chinò di fronte a lui cominciando a raccattare buona parte delle conchiglie a terra. La bimba di fianco a lui gli sorrise e fece una pernacchia all’altro ragazzo correndo poi via.

    “Grazie dell’aiuto, piattola! Ti spezzo le ossa se ti prendo.”

    Tom spalancò la bocca fissando la smorfia del ragazzo -il quale aveva arricciato le labbra carnose in un tenero broncio- poi rise, divertito e sorpreso.

    “Cristo, ma sei tedesco?”

    “Oh.” Il ragazzo moro lo fisso con una conchiglia in mano ed i grandi occhi caramello spalancati “e tu non sei inglese?”

    “No, proprio no!” Tom si batte due pacche sui jeans, all’altezza delle cosce e si alzò ridendo “Sono Tom, piacere.”

    L’altro ragazzo lo imitò, stringendosi al petto il secchiello ora nuovamente pieno di conchiglie “Bill.”

    Già, forse fu proprio un caso o forse il destino a far si che quei due ragazzi si incontrassero.

    Tom sorrise, mettendo da parte l’imbarazzo e riacquistando un po’ di sicurezza. Guardò ancora una volta il ragazzo avanti a lui, notando solo ora quanto i suoi lineamenti fossero delicati e quanto assomigliasse ad una ragazza.

    Una bella ragazza.

    “Bhé in questo caso. . .” Thomas rise “Nice to meet you.”


    ~

    Nda: Spero di non avervi deluso. Avevo promesso che avrei postato oggi e ieri sera l'ultima scenetta non era ancora completa. In realtà l'idea si è sviluppata proprio come volevo io, però il modo in cui è scritta è un po' sciatto e poco descrittivo per i miei gusti. In ogni caso, spero che vi piaccia e ripeto, non mi aspetto solo commenti positivi, per cui sentitevi anche libere di dire "Hey, mi hai proprio deluso, questo capitolo me lo aspettavo molto più bello e bla bla bla." Non può che farmi piacere. Apprezzo la sincerità.

    E asdvtysdvdsv ho scritto troppo, me ne vò. Grazie mille in anticipo!
    (:


    *Merda!: è un gioco di carte che credo ormai tutti conoscano, ma per sicurezza lo spiego uguale. Il numero di carte che si ha in mano dipende dal numero di giocatori (ovviamente carte da "scopa", per capirci) e tutti i giocatori devono scegliere una carta di quelle che hanno tra le mani e la devono passare contemporaneamente a tutti gli altri al giocatore alla propria destra. Lo scopo del gioco è di avere 4 carte uguali però con il seme diverso e quando succede bisogna battere la mano sul mazzo urlando appunto "merda!", chi poggia per ultimo la mano sopra al mazzo deve prendere un altra carta. Perde chi ha più carte da parte, quindi più "chili di merda."
    Se lo conoscevate, bene. Altrimenti giocateci che ci si taja dalle risate!

    *Fregole: è un modo di dire romano che sta ad indicare quando una persona ha fretta --> "Oh, dove vai cosi presto? Che c'hai fretta/le fregole?

    Edited by meishells‚ - 23/3/2012, 13:50
     
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12 replies since 28/7/2011, 18:03   187 views
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