I colori che non hai visto mai

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  1. Lostris92
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    Salve a tutte, ragazze ^^ Dunque, proprio l'altro giorno ho iniziato questa storiella che mi è venuta al momento e che mi son subito messa a scrivere ^^ La storia parla della relazione un pò speciale e un pò problematica tra due ragazzi, ma... non voglio anticiparvi niente ^^
    Ora, avrei voluto postare tutto il capitolo uno, ma essendo troppo lungo ho deciso di spezzettarlo in più parti ^^
    Per ora vi lascio al prologo e alla prima parte della storia!
    Vi avverto solo che è una boysxboys love anche se potrebbe non sembrare all'inizio XD
    Buona lettura e spero vi piaccia ^^




    PROLOGO


    L’azzurro del cielo.
    Il verde della natura.
    Il blu del mare.
    Il rosso del fuoco e del sole.
    Tutto intorno a noi è vivo, grazie ai colori che lo animano.
    I colori che danno gioia di vivere, i colori che conferiscono energia, i colori che ci trasferiscono la loro forza.
    E’ assurdo come, a volte, li si ignori, semplicemente pensando che sono qualcosa che c’è e che sempre ci sarà. Qualcosa che non vale la pena di stare ad osservare, poiché li si ha sempre sotto gli occhi.
    Ed è ancora più assurdo che io, il primo a credere fermamente nella banalità della loro esistenza, stia riflettendo così profondamente su questa cosa.
    Be’, la verità è che non sto facendo altro che ripetere le tue parole. Perché tutti questi magnifici colori me li hai fatti scoprire tu e sempre grazie a te, ho imparato a comprenderne il valore.
    Ma più di ogni altra cosa, hai portato alla luce il colore più bello che avessi mai potuto immaginare di vedere; un colore che non sarò mai più in grado di dimenticare: quello dell’amore.







    CAPITOLO I


    Non sono mai stato un ragazzo che ascoltava troppo quello che gli si diceva. Anzi, a dir il vero, non ascoltavo niente di ciò che non m’interessava. Il parere degli altri, i loro consigli... per me valevano meno di una cicca di sigaretta trovata per strada, lungo il percorso.
    Eppure, ciò nonostante, quelle parole sono irremovibili dalla mia mente:
    “Ci sono volte, diverse volte, sai, in cui le tue convinzioni, la tua mentalità, quello che fai... insomma, volte in cui la tua intera vita si rivolta completamente. Come un calzino. E ti ritrovi a pensare cose che prima mai avresti anche solo immaginato ti sfiorassero la mente e a fare cose che reputavi impossibili per te da accettare”
    Parole che mi erano state dette per critica, parole che, forse, avevano solo lo scopo di predicare il mio comportamento, o, almeno, così mi erano apparse. Avevo lasciato quella ragazza dopo esserci frequentati per una settimana, rivelandole sostanzialmente il vero motivo per il quale la stavo lasciando, e cioè che mi ero stancato di lei.
    Cattiveria? Chissà... Può darsi. In fondo, non ci avevo pensato più di tanto e non avevo neanche voglia di stare a perdere tempo, inventandomi una qualunque scusa che sarebbe risultata banale o ridicola, come ad esempio “Scusa, ma sento di non amarti più” (come avrei potuto dire una cosa del genere, quando ci ero uscito insieme solo per una settimana?) oppure “Mi spiace, ma non mi sento attratto da te” (che idiozia... se non lo fossi stato, non le avrei proposto io di uscire insieme, no?).
    “Come sarebbe a dire? Allora perchè mi hai chiesto di uscire, se avevi intenzione di rinunciare così presto?” mi aveva domandato, leggermente alterata.
    “Non è che avessi intenzione di rinunciarci sin dall’inizio” avevo tentato di giustificarmi, con nonchalance. “Semplicemente mi sono stancato prima del previsto”.
    “Prima... del previsto...?” aveva ripetuto lei, con espressione mista tra shock ed amarezza. “Quindi sapevi già che ti saresti stancato di me? Ancor prima di metterci insieme, di metterci alla prova?”.
    Non ero riuscito a trattenere un sospiro a quella domanda.
    Quando le lasciavi era la cosa più difficile: dovevi dare spiegazioni e sentirle piagnucolare come delle oche, mentre ti maledicevano o ti mandavano a quel paese.
    “Ascolta, non voglio star qui a discutere con te del come, del quando o del perchè... Ma ti ho trovata carina, ti ho chiesto di uscire, ci siamo frequentati, mi sono stancato e ora ti sto lasciando. Punto, fine della storia. Game over. Mi spiace di aver alimentato in te speranze che si sono dimostrate vane, ma più che chiederti scusa, non posso fare”. Mentre parlavo lei mi osservava con sguardo fisso, dietro quegli occhiali dalle lenti sottili, ma dalla montatura un pò appariscente che portava il marchio di una qualche marca sconosciuta o, peggio, che conosceva solo lei. Già... Capelli castani corti, lisci, talmente tanto da parere degli spaghetti, che le arrivavano alle spalle, occhi nocciola nascosti dietro quegli occhiali, forme inesistenti e sex appeal zero. Per non parlare del fatto che era la secchiona un pò soggetta della classe e che, a contrario di me, dava priorità allo studio, alla diligenza, alla famiglia e al suo futuro. Eravamo di due pianeti totalmente differenti. A pensarci bene, è stata una ragazza diversa dal solito genere di donne che frequentavo io e, onestamente parlando, non ricordo neanche il motivo per cui mi ci ero messo insieme, anche solo per una settimana, ma probabilmente l’avevo fatto per ammazzare il tempo. O, almeno, così pensavo all’epoca.
    “Senti, non ci posso fare niente, okay? Purtroppo sono fatto così: se una cosa mi piace, me la tengo, altrimenti bye bye, arrivederci e chi si è visto si è visto. Non è colpa tua. E’ mia. Sono fatto così. Urla, piangi, batti i piedi a terra finchè vuoi, ma le cose non cambieranno. Se vuoi, odiami pure, non ti biasimo. Fatto stà che non voglio rimanere con te”.
    Ero stato duro. Ne ero cosciente. O, meglio, lo fui nel momento in cui la vidi disperatamente mentre cercava di trattenere i singhiozzi e di riacquistare compostezza. Era davanti a me, col capo chino ed ero sicuro al mille per cento che stesse piangendo. Le avevo rivolto parole non solo severe, ma crudeli. Ero stato decisamente brutale, rinfacciandole che non m’interessava stare con lei, anzi che non volevo. Ma non ero pentito. Non lo ero affatto.
    L’avevo fissata imperterrito, con aria indifferente, come se ciò che stessi dicendo non mi riguardasse per nulla, mentre avevo notato come le sue spalle avevano preso a tremare.
    Avevo sospirato, mentre stavo socchiudendo gli occhi, lentamente, restando immobile.
    Eccolo, sta arrivando.
    Avevo pensato, aspettando che, come avevano fatto tutte coloro che l’avevano preceduta, mi colpisse, convinto che, anche quella volta, mi sarei subìto il rimprovero di mia madre e di mia sorella sul fatto che me lo ero meritato e che dovevo decidermi a diventare un pò più serio con le persone che frequentavo. La solita paranoia, insomma.
    Ma... avevo fatto male i miei calcoli.
    Aspettai per dieci, venti, trenta secondi, per un minuto, quasi per due. Ma non arrivò niente. Non un pugno, non uno schiaffo, un buffetto, o anche un semplice, piccolo pizzicotto. Niente pianti, niente lamenti, niente maledizioni, o imprecazioni. Niente di niente.
    Perplesso e, a dirla tutta, anche un pò sorpreso avevo riaperto gli occhi, constatando che lei era ancora lì, davanti a me, col capo ancora chino. Aveva smesso di tremare e si limitava a stare in piedi, immobile.
    Inizialmente avevo pensato che lo shock per una come lei di trovare qualcuno che le si dichiarasse e di perderlo dopo una sola settimana fosse stato troppo grande e che, quindi, non essendoci abituata, aveva comportato quella reazione. In un secondo momento, mi ero detto solo che non era una tipa dura e sfrontata come le altre, ma una ragazza semplice, genuina, gentile ed essenzialmente troppo debole per fare una cosa del genere. No, non mi avrebbe picchiato, nè si sarebbe lamentata. Avrebbe accettato tutto, senza fare storie e probabilmente, tornata a casa, si sarebbe immersa nella credenza della cucina, svuotandola, nel tentativo di dimenticare questa “brutta esperienza”. A causa mia sarebbe, quindi, caduta in depressione, giudicandosi una sfortunata per il resto della sua vita, avrebbe incominciato ad odiare il genere maschile e, se non diventando lesbica, avrebbe risolto il suo problema solo all’età di quarant’anni, quando finalmente qualche sua collega di lavoro o qualche parente un pò più obbiettivo l’avrebbe incitata ad incontrare un uomo per non rimanere da sola per tutta la vita, come una povera zitella sfigata.
    Fattomi questo meraviglioso film mentale nel giro di pochi secondi, avevo sospirato nuovamente e mi ero voltato per andarmene.
    “Quando meno te lo aspetti, puoi cambiare totalmente, lo sai?” aveva esordito, mentre ormai io ero già sulla soglia dell’aula. Mi voltai ad osservarla: aveva finalmente alzato il capo che mi diede l’opportunità di notare come le lacrime le solcassero il viso. Tuttavia, nonostante le lacrime, lei... lei sorrideva.
    “Sembra strano detto così all’improvviso, ma anche se sei così, anche se dici di non poterci fare niente, quando meno te lo aspetti, ti ritrovi in un mondo diverso, circondato da persone diverse e ad essere tu stesso una persona completamente differente. Quasi senza che te ne accorga”.
    Eh?
    Mi voltai verso di lei, indirizzandole uno sguardo vacillante, ma anche un pò infastidito.
    Di che diamine sta parlando?
    Nonostante la mia espressione, lei mi sorrise nuovamente, concludendo con quelle parole che non ho mai più scordato in vita mia. Io... Io, che non badavo alle parole degli amici, anche di quelli più stretti, ai suggerimenti degli insegnanti, ai consigli dei miei parenti, o dei miei stessi famigliari... assorbii quelle parole come se fossero stata loro acqua ed io una spugna secca da secoli e secoli:
    “Ci sono volte, diverse volte, sai, in cui le tue convinzioni, la tua mentalità, quello che fai... insomma, volte in cui la tua intera vita si rivolta completamente. Come un calzino. E ti ritrovi a pensare cose che prima mai avresti anche solo immaginato ti sfiorassero la mente e a fare cose che reputavi impossibili per te da accettare”.
    Dopo aver pronunciato queste parole che erano subito entrate a far parte del mio essere, ma verso le quali, nel momento esatto in cui le avevo udite, provavo astio e quasi ilarità, lei aveva preso il suo zaino, se lo era messo in spalla, mi aveva sorpassato e, prima di andarsene, mi aveva sorriso un’ultima volta, con gli occhi ancora rossi e leggermente gonfi a causa del pianto, nascosti dietro quei suoi occhiali che la rendevano così anonima rispetto a tante altre sue coetanee.
    Quella fu l’ultima volta che vidi quella ragazza.
    Il giorno dopo non era tornata a scuola, semplicemente perchè si era trasferita in un’altra. Il motivo apparente fu quello che non si era trovata bene con i compagni e con gli insegnanti, ma non ci credette nessuno. Questo perchè, tutto sommato, anche se non era il massimo della socievolezza, talvolta scambiava quattro chiacchiere con le altre ragazze della classe e, anche se raramente, pure con i ragazzi. In secondo luogo, con gli insegnanti non solo andava bene, ma era addirittura la loro pupilla, tant’è che nelle elezioni dei capo-classe s’intromettevano (anche se non ne avevano alcun diritto) per farla eleggere a tutti i costi.
    Insomma, in poche parole, non ci volle molto a tutti coloro che erano a conoscenza del fatto che ci fossi stato insieme, per capire che la causa ero stato io.
    Per quanto mi riguardava, la cosa non mi toccò minimamente, anzi, la criticai per quanto aveva fatto.
    “Che esagerazione... Solo perchè l’ho mollata, ha deciso di cambiare scuola... Allora se fosse stata sul punto di sposarsi e il presunto marito si fosse tirato indietro, che avrebbe fatto? Si sarebbe suicidata?” mi chiesi, a voce alta, nell’ora d’intervallo, mentre ero circondato dal mio solito gruppo di amici, quello che frequentavo io a quel tempo. Nessuno di loro osò ribattere, anzi mi appoggiarono tutti, senza alcuna eccezione. Per non parlare di come ne sparlarono le ragazze della classe.
    Nessuno, dunque, me ne fece una colpa: gli insegnanti perchè non lo sapevano e i compagni di classe perchè, anche se ne erano a conoscenza, mi appoggiavano. Ed io, perchè non me ne importava.
    Era davvero così. Non m’importava di quella ragazza, nè della decisione che aveva preso.
    Ad essere sincero, non ricordo nemmeno il suo nome. E questo lascia intendere come, al tempo, davvero non m’importasse nulla di lei. Ma quelle parole che mi erano state rivolte quel pomeriggio, nell’aula vuota, al tramonto del sole... quelle parole apparentemente di critica e di predica, al contrario di colei che le aveva pronunciate, erano rimaste e mai mi avrebbero lasciato.
    E questo lo avrei imparato molto, molto presto.
    Di fatti da quell’episodio trascorsero più o meno due settimane, ma la mia vita, così come quella di tutti, procedette senza intoppi. Andava tutto alla grande, o, meglio, andava tutto come al solito. Nessun cambiamento, nessuna novità, come sempre, del resto. Ed ero convinto che così sarebbe sempre stato... O perlomeno fino a quel pomeriggio del mese di Febbraio.
    “Scusa, puoi ripetere?”. Il mio tono di voce era chiaramente meravigliato, ma era impossibile non notare una vena di sarcasmo. Ero seduto sulla poltrona della stanza da pranzo ad aspettare che la mamma finisse di cucinare, per poter cenare normalmente, come tutte le sere, quando mio padre tornò da lavoro e con entusiasmo annunciò la sua promozione e ciò che essa avrebbe comportato.
    “Come ho già detto... Ce ne andiamo in Giappone!” ripeté ancora una volta papà, con l’entusiasmo che un bambino avrebbe provato nell’apprendere che sarebbe andato a vivere a Disneyland.
    Il silenzio regnò sovrano in quei cinque minuti che susseguirono il suo rinnovato annuncio.
    La mamma, che stava nella stanza a fianco a finire di preparare lo stufato, si era affacciata dalla cucina e lo aveva guardato con occhi sgranati, tenendo ancora in mano il coltello e la cipolla che stava finendo di pulire... si era addirittura tagliata, ma per lo shock non doveva averlo notato; lo stesso sguardo, solo che per motivi diversi, avevamo assunto io e mia sorella, che stava scompostamente seduta sul bracciolo della poltrona dove mi ero appostato io.
    Fu incredibile come in quel preciso istante in cui mio padre finì di parlare, nella mia testa riaffiorò all’improvviso l’aula della nostra classe, la ragazza piangente e, principalmente, le sue parole.
    Non ci posso credere... Sospirai, massaggiandomi le tempie. Che cos’è, una maledizione? Non potetti fare a meno di pensare tra me e me, mentre affondavo la testa ancora di più nella spalliera della poltrona, cercando di far ordine nella mia mente e di pensare a come avrei fatto fronte a quell’enorme problema.

    Edited by Lostris92 - 19/1/2013, 20:01
     
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    Aaaaaaaaaaaaaah è bellissima!!! Mi piace tanto tanto!!! *___* Ti prego voglio il seguito!!!! :pianto:

    E comunque sei bravissima mi piace troppo come scrivi!!!! :adora: :adora:
     
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  3. Lostris92
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    Grazie mille!!! ^^ Ma non sono niente di che, figurati XD
    Sono contentissima che ti sia piaciuta, anche se si tratta solo di una storia nata da un secondo all'altro nel mio piccolo bacato cervellino >.<
    Ad essere sincere, leggendo questa parte del primo capitolo non si capisce che è uno yaoi, ma ti garantisco che lo è XD
     
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    non direi che non è niente di che, anzi è una storia ben scritta e lascia intendere che ne vedremo delle belle, quindi, per favore, seguito, seguito ... !! :ciau:
     
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    Bella bella...mi piace proprio tantooo!!! :ooh:
    Please sgobba per noi fanatiche lettrici!! XD

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  6. Lostris92
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    Dunque, dunque è passato così tanto tempi =w= Ok, tra un esame e l'altro non ho avuto molto tempo di postare, ma ho scritto qualcosina. Sono andata molto più avanti nella storia e quindi potrei postare molto più di questa parte del capitolo, ma purtroppo se riportassi qui anche la terza parte del primo capitolo diverrebbe infinitamente lungo... ^^'
    Quindi vi chiedo ulteriore pazienza, questa seconda parte del primo capitolo è ancora un po' introduttiva, ma spero ugualmente vi piaccia ^w^

    Seconda parte, Capitolo I




    Mio padre era il direttore della filiale della società automobilistica della FIAT a Taranto: era un uomo come tanti altri e tutto sommato molto semplice, alla buona, ma quando s’impegnava riusciva ad ottenere risultati straordinari, meravigliosi. E fu proprio per questo motivo che i suoi superiori decisero di mandarlo in Giappone.
    Strano...Avevo pensato, riflettendoci su. Solitamente è sempre dal Nord che se ne vanno i direttori di filiale per l’estero e quelli del Sud vengono trasferiti nel settentrione. Papà deve aver lavorato sodo per essere riuscito a guadagnarsi una fiducia tale da essere trasferito in Giappone senza prima fare una “capatina” al Nord, anche di un solo anno.
    Ora, questo trasferimento era stato ben visto più o meno da tutta la famiglia per varie ragioni: la prima era che la casa in cui eravamo non era di nostra proprietà, ma solo in affitto; la seconda era che la mamma non lavorava, ovvero era una semplice casalinga che si occupava in tutto e per tutto della casa; non avevamo parenti tanto stretti dall’impedirci di allontanarci così tanto dalla nostra terra d’origine ed infine, ma non meno importante (anzi, se vogliamo la cosa principale), lo stipendio di papà aumentava. Non solo: dato che si cambiava sede e che, dunque, ci si trasferiva in un altro luogo, l’affitto o l’acquisto della casa veniva addebitato interamente all’industria, così come le bollette della luce, del gas e tutte le altre spese inerenti alla permanenza lì.
    Insomma, se non fosse stato che di Giapponese non sapevamo neanche l’alfabeto, questo trasferimento era favorevole sotto tutti i punti di vista. Logicamente, però, questo problema non riguardava mio padre: tanto a lavoro gli avrebbero affiancato un interprete e gli sarebbe stato concesso tutto il tempo possibile ed immaginabile per imparare la lingua. Per quanto riguardava mia madre... era una casalinga! Non aveva necessità di imparare il giapponese con urgenza. Anche lei aveva tutto il tempo a sua disposizione per imparare a parlare correttamente la lingua e con calma. Vogliamo parlare di mia sorella? Essenzialmente lei era vissuta in Giappone ancor prima che ci fossimo realmente trasferiti: dall’età di undici anni non aveva fatto altro che seguire anime e manga in continuazione. Praticamente a furia di vedere anime in giapponese con sottotitoli in italiano, sapeva parlare quella lingua meglio di un nipponico doc. Nella vetrina della sua libreria contava non so quante centinaia di manga, tant’è che mio padre dovette comprarle una libreria più grande per contenerli tutti. Immancabilmente i soldi che ci venivano regalati a Natale e alle altre feste dai nostri genitori andavano a finire nel suo salvadanai a forma di paperella ed, in seguito, sarebbero sicuramente finiti nelle mani del proprietario dell’unica fumetteria della città. Spese un patrimonio in quel cumulo di fumetti dalla trama sempre uguale e banale...
    Cielo... Ricordo che passava ore a raccontarmi delle mille avventure e vicissitudini dei personaggi di quei dannati fumetti... Sempre la stessa storia: ragazze che incontrano ragazzi, tentennano, capiscono che si amano, si mettono insieme, compare il rivale di lui, poi quella di lei (o viceversa), si lasciano, si rimettono insieme, tornano altri rivali di lui e/o lei, si lasciano di nuovo, si rimettono di nuovo insieme e finiva così il manga. Anche perché quelle che li disegnavano probabilmente non sapevano più che inventarsi e li facevano terminare così, ma ero convinto al cento per cento che se uno di questi fosse proseguito, sarebbe andato avanti con quella solfa per tutti i centomila volumi che le autrici avrebbero deciso di pubblicare.
    In realtà non me ne importava niente di quelle storie e non ricordo neanche quante volte tentai di cacciare via mia sorella dalla mia stanza, ma quando si metteva a parlare di quei maledetti anime e/o manga giapponesi, non la finiva più: sembrava tanto mia madre tornata dallo shopping mentre elencava tutto ciò che aveva visto, ma che per senso del risparmio non aveva comperato, ovvero tutto il centro commerciale. Sostanzialmente Debora (chiamata affettuosamente da tutti Debra) era quella più felice ed esaltata per questo trasferimento. Per lei era un sogno che si avverava. Peccato, però, che non lo fosse per me.
    Per farla breve, l’unico contrario e sfavorito in tutta quella situazione ero io.
    Non solo non avevo alcun interesse nell’andare in Giappone, ma non sapevo neanche parlare il giapponese e tantomeno avrei avuto molto tempo per impararlo.
    Ero così avverso all’idea di dovermi trasferire che in un primo momento mi ero opposto con tutte le mie forze, intimando ai miei che o restavano lì con me, o partivano senza di me. Purtroppo per me mio padre usò la carta vincente del “Sei ancora minorenne e ufficialmente non puoi ancora vivere da solo. Facciamo così, quando compi diciotto anni, potrai anche tornartene qui, ma ti pagherai tutto da solo e provvederai da solo a tutto ciò di cui avrai bisogno”.
    Bene, pensai,tanto manca solo un anno.
    “Io non riesco proprio a capirti” aveva incominciato ad assillarmi la mia quattordicenne e straziante sorella. “Perché non vuoi venire in Giappone? E’ un posto così bello!”.
    D’accordo, non è che fossi particolarmente avverso al Giappone, né ero razzista. Anzi, molte volte apprezzavo le straniere più delle italiane, ma... starci a contatto qualche volta era una cosa, doverci convivere era un’altra. E poi c’era tutta una serie di motivi per cui non volevo andare in quel paese.
    Il primo era che mentre in Italia la maggiore età si raggiungeva ai diciotto anni, lì, invece, la si raggiungeva ai venti. Questo stava a significare che non potevo bere alcolici, restare fino a tardi in giro, o fare, più in generale, tutto ciò che volevo (be’, questo avrebbe voluto la legge, ma tanto sapevo che l’avrei infranta e più di una sola volta) per almeno altri tre anni, mentre in Italia dovevo aspettare sì e no un anno.
    Il secondo era che la scuola iniziava ad Aprile, in Primavera, quindi non potevo neanche ritenermi fortunato ad essere stato trasferito nel secondo semestre e, dunque, che non sarebbero bastati tre soli mesi di frequentazione – come avevo previsto – prima delle vacanze estive. Per poi non parlare del fatto che Debra mi aveva spiegato come si sarebbe svolto il “calendario scolastico” e gli eventuali periodi di festività (totalmente diversi da quelli italiani). Non ci fu bisogno di uno psicologo per capire che ero indiscutibilmente depresso nell’apprendere che quell’anno sarebbe stato decisamente duro.
    Ed infine il terzo (ma non ancora l’ultimo!) era che assolutamente il Giappone non mi diceva niente: perché proprio Tokyo? Perché mio padre non poteva essere trasferito a New York, o a Manhattan? Anche Las Vegas non sarebbe stata male, anche se dubitavo che vi fosse una filiale della FIAT lì.
    Parigi, Londra, Berlino, persino Oslo o anche Stoccolma mi sarebbero andate bene... Ma perché proprio Tokyo?
    Nonostante me lo fossi domandato tante di quelle volte da poterci scrivere un libro di mille e passa pagine, non ero riuscito a darmi una risposta sensata. Ed intanto eravamo già sull’aereo che ci avrebbe portato nella nostra nuova “casa”.

    Il viaggio fu tutto sommato molto tranquillo, anche se lungo, ma sani e salvi arrivammo all’aeroporto di Tokyo che erano praticamente le cinque di pomeriggio.
    Ad attenderci c’era l’interprete di mio padre, Yamada Takeru. O forse era Ideru? Su una cosa ero certo: finiva in “eru”. Be’, onestamente non lo ricordo con esattezza anche perché non è che me ne importasse più di tanto. Per non parlare del fatto che mi ci vollero non so quanti mesi per distinguere il nome dal cognome.
    E questo non riguardava solo lui, ma tutti i giapponesi in generale.
    Yamada era un tipo molto riservato, ma quando gli si chiedeva qualcosa o gli si dava a parlare, diventava peggio di un treno in corsa a tutta velocità. Me ne accorsi – io e tutta la mia famiglia – in macchina con lui, mentre ci conduceva nella casa scelta dalla società dove lavorava mio padre.
    Per le strade di Tokyo mi accorsi che quella città sembrava tanto New York, a differenza del fatto che mentre in America vedevi una bella ragazza e poster della coca-cola sponsorizzati da modelle ultra-rifatte ogni cinque metri, lì in Giappone faticavo persino a distinguere una bella donna da una racchia. A dire il vero riuscivo a malapena a distinguere i maschi dalle femmine: diavolo... erano tutti dannatamente uguali! Come facevano a scontrarsi per strada e non scambiarsi per qualcuno che conoscevano? Davvero non ne avevo idea. In un primo momento ipotizzai addirittura che per riconoscersi tra loro si mettessero dei cartellini col loro nome e cognome sul petto, come i commessi dei negozi.
    Arrivati in un quartiere piuttosto centrale di Tokyo notammo con piacere che il condominio dove avremmo abitato sarebbe stato quasi interamente di nostra esclusiva proprietà. Il palazzo constava di tre piani di cui il primo era sicuramente quello più amplio e più lussuoso. E proprio quello fu destinato alla nostra famiglia. D’accordo, non era un palazzo che certamente si sarebbe potuto permettere un attore o un milionario, ma sicuramente era meglio di uno di quegli sgabuzzini in cui Debra mi aveva detto esser soliti abitare le persone che non si potevano permettere di pagare un affitto troppo alto.
    La mia preziosissima quanto detestabile sorellina mi aveva anche tenuto una bella lezione su come, solitamente, erano arredate e/o composte delle case tradizionali giapponesi e, onestamente parlando, l’idea di dover dormire per terra in uno di quei sacchi a pelo, che imparai a chiamare “futon” solo qualche mese più tardi, oppure di dover mangiare seduti sulle gambe su di un tavolino alto qualche centimetro, oppure quella di dover andare in un bagno pubblico per lavarsi, mi davano il voltastomaco.
    Fortunatamente il nostro appartamento, già tutto arredato e pronto all’uso, si rivelò, con mia grande gioia e con altrettanto rammarico di mia sorella, tutt’altro che una “tradizionale casa giapponese” ed anche piuttosto spazioso. Vi era il soggiorno, il salotto, le tre camere da letto (fortunatamente la mia abbastanza lontana da quella di Debra), la cucina, il bagno e persino una stanza libera che sarebbe stata adattata a stanza degli ospiti. Il letto era normale, il tavolo era normale, il bagno c’era (quindi nessun pericolo di dovermi recare in un bagno pubblico) e tutto sembrava anche molto più accogliente della casa in Italia, a Taranto. Be’, per quanto odiavo l’idea di trovarmi lì in Giappone, non si poteva certamente mettere a paragone una città come Taranto a Tokyo, una delle città più grandi e più famose al mondo, no?
    Senza dubbio, fui soddisfatto di quell’appartamento: per ora quella era l’unica cosa positiva che mi era capitata da quando mio padre era tornato a casa per darci l’annuncio del suo trasferimento.
    Anche a mia madre piacque parecchio la nostra nuova casa, soprattutto per il fatto che fosse stata arredata con un mobilio straordinariamente di buon gusto. Borbottò soltanto qualcosa che riguardava il doversi dare da fare, data la grandezza dell’appartamento rispetto all’altro, ma le lusinghe si fecero strada tra le lamentele quasi subito.
    Per non parlare di mio padre che era felice come una pasqua. Lui s’era già piazzato sul divano, di fronte alla televisione, schermo piatto, cristalli liquidi, cinquanta pollici, nonostante ci fosse ancora Yamada al suo fianco a parlargli di come avrebbero iniziato il lavoro il giorno dopo. Mio padre, però, del canto suo, lo invitò a sedersi al suo fianco e a lasciar perdere per quella sera.
    L’unica che rimase estremamente insoddisfatta fu Debra che, quasi con occhi lucidi, ispezionò ogni millimetro quadrato della casa in cerca di un qualche segno di “tradizionalismo giapponese”, ma le sole cose di giapponese che aveva quell’appartamento erano il televisore e i computer. Tuttavia, nonostante le sue iniziali lamentele, già dalla sera stessa aveva preso familiarità con la sua stanza e aveva già sistemato tutti i suoi manga nella nuova libreria, grande abbastanza da contenerli tutti e da permetterle di collezionarne almeno altrettanti.
    Insomma, la prima notte, tra iniziali scontenti, grandi sorprese e notevoli sospiri di sollievo (i miei) passò tranquillamente.
    Il giorno dopo, però, fu sostanzialmente più movimentato e sicuramente ci riportò alla dura realtà: a dispetto di quanto l’appartamento potesse essere occidentalizzato, eravamo in Giappone!
    Come già detto, mio padre, che già dal giorno dopo del suo arrivo dovette recarsi immediatamente a lavoro, aveva al suo fianco Yamada, il che gli consentiva di non avere troppi problemi a lavoro, né con tutti coloro con cui veniva a contatto (o perlomeno finché aveva con sé Yamada).
    Per quel che riguardava mia madre, premettendo che aveva già iniziato a pulire e lucidare casa, anche se ci abitavamo neanche da ventiquattrore, mi stupii con quanta rapidità e facilità riuscisse a stringere amicizia; nostra vicina di casa era una donna, padrona del negozio di ramen che stava proprio di fronte al nostro palazzo, con cui mia madre allacciò subito i rapporti. Vero era che mia madre sapeva parlare correttamente l’inglese, essendosi quasi laureata in lingue, ma non riuscivo ancora a spiegarmi come sapesse fare amicizia così facilmente e, soprattutto, con persone di cui non sapeva neanche come si pronunciassero i nomi. Mia madre, per me, era sempre stata un mistero.
    Debra, invece, era già uscita da casa per visitare la città, dove fui costretto ad accompagnarla dai miei genitori, dato che secondo loro correva il rischio di perdersi.
    Ma per favore! Avevo pensato, sospirando. E’ più facile che si perda un giapponese stesso che non lei!
    Ed effettivamente, anche se era tanto per dire, mia sorella mi portò a visitare ogni angolo di Tokyo come se fosse nata lì in quella città.

    “Guarda, se si prende la metro e si va lì, si arriva al quartiere commerciale di Shibuya... Invece se andiamo di lì...” aveva continuato a ciarlare Debra dopo quasi tre ore ininterrotte di cammino per le strade di Tokyo.
    “Come diavolo fai a sapere tutte queste cose? Cos’è, ti sei impiantata nel cervello la cartina della città?” le avevo chiesto, ironico. Per me era semplicemente assurda una cosa del genere.
    “Ma che dici?” mi aveva risposto, prendendola scherzosamente. “Piuttosto, invece di stare a blaterare cose senza senso, perché non andiamo a vedere le nostre scuole?”.
    “Eh?”. Le rivolsi uno sguardo perplesso e decisamente riluttante all’idea che mi aveva proposto. “Spero che tu stia scherzando, perché non ho nessunissima voglia di accompagnarti in giro, con questo freddo cane, solo per vedere le nostre scuole, poi!”
    “Cosa?! Ma perché no?!”
    “Fidati, ne avrai così tanto le scatole piene, quando la frequenterai, che ti cecheresti persino gli occhi pur di non vederla più”.
    “Be’, io la voglio vedere” insistette con aria ostinata. “Sono curiosissima di vedere dal vivo una scuola giapponese. Quella che frequenterò, poi!”
    “Io no, invece, perciò andiamocene. Sto davvero iniziando a sentire freddo” chiarii, mentre le voltai le spalle e feci per tornare sui nostri passi, quando mi sentii afferrare per un braccio all’improvviso.
    “E dai, non fare così! Accompagnami!” continuò ad assillarmi Debra. “ Non ci vorrà molto! Fortunatamente le nostre scuole non sono molto distanti da casa nostra. Non dobbiamo neanche prendere la metro!”
    “Metro o non metro, non m’importa. Non ho nessuna voglia di prendermi un malanno per andare a visitare le nostre scuole. E’ una cosa stupida, oltre che inutile, dato che la tua la vedrai tra poco più di un mese”.
    “Ma io la voglio vedere assolutamente! Sia la tua che la mia!”
    “Be’, allora fallo da sola. Io me ne torno a casa. Ciao” conclusi, mentre tornavo a camminare al freddo e al gelo. Certo che in Giappone, pensai, fa davvero un freddo boia. A Taranto non nevica mai e se capita si tratta tuttalpiù di acqua congelata, che quando sfiora il pavimento si scioglie. Qui invece sembra che sia di norma.
    “Cosa?!” esclamò, con voce altisonante, mia sorella. “Lasceresti davvero tua sorella da sola, in una città appena conosciuta, solo perché non hai voglia di camminare un altro pò?”
    “Sì” mi ero limitato a risponderle. Innanzitutto perché conosci Tokyo meglio di Taranto ed in secondo luogo perché sono tre ore che cammino senza sosta per seguirti in tutti i luoghi in cui hai preso il capriccio di andare.
    “Ah, davvero? Allora vorrà dire che quando sarai a casa, telefonerò alla mamma fingendo che degli sconosciuti hanno cercato di abbordarmi, infastidendomi” escogitò lei, incrociando le braccia al petto. “E lo sai quanto la mamma è protettiva sotto questo punto di vista, no?”
    Mi voltai, quindi, di nuovo verso di lei, fulminandola con aria minacciosa. “Non oseresti”.
    Lei non trattenne un sorriso di trionfo. “Tu dici? Io penso di sì. E, fidati, sarai nei guai. Non ti daranno la paghetta per un anno intero e non ti faranno neanche prendere la patente per la moto che tanto desideri”.
    Dannazione!
    Mi aveva in pugno.
    Sospirai, mentre ormai rassegnato venivo afferrato dalle braccia di mia sorella che mi trascinavano in giro per le strade che ci avrebbero portato alle nostre future scuole.
     
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    Ciaoooo ^^ Mi è piaciuta questa seconda parte del primo capitolo lo trovata divertente visto che a lui (non ricordo come si chiama) non piace quasi niente di Tokyo se non la casa XD
    Io non mi faccio problemi ad aspettare l'importante e che il continuo arrivi =)
    Un bacione ♥
     
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  8. lory84
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    Complimenti per la storia,sei stata molto brava.
     
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  9. Lostris92
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    Salve, ragazze ^w^
    Sono contenta che vi sia piaciuta la mia storiella che oggi finalmente continua dopo un po' di sosta XD
    Dunque, dunque... non temere Nelly, non è che non te lo ricordi il nome del ragazzo... è che ancora non l'ho mai citato XD
    Ma è così... in realtà ancora per un bel pò non verrà fuori il nome del protagonista, ma non preoccuparti, nel frattempo chiamalo pure "tizio" ahah
    Ad ogni modo, in questa parte finalmente incominci a muoversi qualcosa e - giusto a livello informativo - ci troviamo innanzi alla terza ed ultima parte del primo capitolo, quindi mi auguro che vi piaccia come le precedenti!
    Grazie ancora dei commenti e dell'appoggio! <3

    Terza parte, Capitolo I




    Per prima cosa, come da volontà di Debra, ci fermammo davanti alla sua scuola, la Koma.
    Ora, da quanto ne avevo capito io, era una scuola media, nonostante mia sorella avesse già quattordici anni e in Italia fosse già al liceo. Questo poiché lì gli alunni iniziavano il loro percorso formativo a sei anni – com’era previsto in Italia – , le elementari duravano sei anni, le medie tre anni ed anche il liceo soltanto tre anni, per quel che concerneva la carriera universitaria, poi, era tutto da stabilire in base alla facoltà scelta e al tempo che s’impiegava per dare tutti gli esami. In Giappone, dunque, a quanto pareva le liceali del primo anno avevano come minimo sedici anni, ragion per cui mia sorella, per la sua età, era destinata al secondo anno delle medie.
    Per quanto mi riguardava, invece, ero destinato al secondo anno delle superiori, nonostante, secondo il mio modesto modo di vedere le cose, sarei dovuto partire dall’asilo, dato che non sapevo nemmeno se in Giappone usassero addirittura le nostre stesse lettere.
    (S)Fortunatamente mio padre aveva previsto le mie difficoltà in questo campo e già dal giorno dopo avrei dovuto seguire un corso privato ed intensivo di giapponese. Non sapevo né come né se ce l’avrei fatta, ma dovevo imparare una lingua complicata come quella (che addirittura sbagliavano a volte gli stessi giapponesi) in poco più di un mese. Non volevo neanche pensare a quanta fatica dovevo fare e, se fosse stato per me, ne avrei fatto volentieri a meno. Se fosse dipeso da me, sarei benissimo andato avanti per sempre a gesti per farmi capire da loro, ma mio padre aveva insistito tanto, quindi ebbi il buonsenso di convincermi che, anche se faticoso, il corso doveva essere seguito. Non avevo altra scelta, no?
    Tornando alla visita alla Koma, Debra aveva un sorriso a trentadue denti stampato in faccia, che molto probabilmente non sarebbe scomparso finché non l’avessi trascinata via con la forza da lì.
    “Hai visto quant’è carina? Anzi, non è soltanto carina... E’ bellissima!” affermò lei in preda all’entusiasmo più sfrenato. Fortuna che i cancelli erano chiusi e non avrebbero aperto prima delle sei, altrimenti ero convinto che Debra non si sarebbe fatta scrupoli ad entrare e visitare ogni metro quadrato della scuola.
    Mi concentrai, quindi, sull’edificio. Effettivamente, se dovevamo dirla proprio tutta, la scuola era davvero ben fatta: una struttura moderna e ben tenuta, grande e spaziosa, addirittura al suo interno c’era un piccolo giardino e un campo da tennis.
    Non potevo dire proprio niente sotto quel punto di vista. Era perfetta. Ma le sorprese non si sarebbero fermate lì, perché mia sorella mi annunciò che la mia scuola, essendo un liceo, sarebbe stata ancora più grande e ancora più ricca.
    La nostra discussione sulla maestosità della scuole, però, venne interrotta dal passaggio di due studentesse vicino l’ingresso che, evidentemente, si stavano dirigendo verso la palestra (data la direzione che stavano prendendo).
    Debra non trattenne un gridolino di gioia. “Hai visto le ragazze lì dentro? La loro divisa è carinissima! Non vedo l’ora di indossarla anche io!”
    Ah, già... Avevo anche ricevuto l’infelice notizia di dover indossare una divisa... Quasi me ne dimenticai, preso da altre faccende e da altri pensieri.
    Certo che la vita è proprio crudele con me... Non potei far a meno di pensare, sospirando nuovamente.
    Al che le due giovincelle, dato il frastuono, si accorsero di noi e, in un primo momento rimaste a bocca aperta, cominciarono a confabulare tra loro qualcosa d’incomprensibile sia per la lontananza che per la lingua (o almeno per me).
    Mia sorella, ancora più entusiasta, prese a salutarle, come se le avesse conosciute da sempre e loro, di tutta risposta, continuarono a parlottare tra loro, guardandoci a volte di sotterfugi, mentre si allontanavano a passo celere.
    “Oh... Se ne sono andate...” constatò lei, con un tono triste e sconsolato. “Forse avranno pensato che siamo dei turisti un pò bizzarri?”.
    “No, avranno semplicemente pensato che siamo degli stranieri maniaci e fuori di testa” mi limitai a mandarla in panico, io. “Ragiona: hanno visto due stranieri fuori dalla loro scuola e una di questi ha iniziato a salutarle senza un’apparente ragione e senza conoscerle... E’ logico che abbiano pensato male”.
    “Non... Non è possibile... Non sono neanche entrata nella mia scuola e ho già fatto brutta impressione...?”.
    “Che t’importa? Tanto sono tutti uguali questi qui, non ti ricorderai neanche chi sono quelle, tra tutte le ragazze che vedrai”. Detto ciò, con le mani in tasca e il viso coperto fino al naso con la sciarpa, presi ad allontanarmi dal cancello della Koma, senza accennare niente a mia sorella che, accortasi che non ero più al suo fianco, mi raggiunse dichiarando: “Bene, adesso andiamo a visitare il tuo liceo”.
    Non commentai. Avevo troppo freddo per farlo, ma un ennesimo sospiro non me lo tolse niente e nessuno.
    In poco tempo, a distanza di più o meno venti minuti dalla scuola di mia sorella, giungemmo al liceo Mitani, il mio liceo. E, detestavo ammetterlo, ma Debra aveva davvero ragione: la struttura non era molto più grande di quella della sua scuola, ma indubbiamente più imponente; il giardino era più grande, all’esterno vi era un campo da tennis, uno calcio e addirittura una piscina coperta.
    Sì, non c’era dubbio: ti faceva quasi venir voglia di andare a scuola, così com’era allestito il liceo.
    Ora, fortunatamente per mia sorella, ma non per me, ci trovammo nell’ora di punta in cui i cancelli venivano aperti e un mare di studenti uscivano per far ritorno a casa, oppure per andarsi a concedere con gli amici un pò di riposo, o chissà cos’altro fare. Noi stavamo di lato, fissi e immobili, come dei pedoni ad aspettare il verde per passare in mezzo alla strada invasa dagli autoveicoli in corsa a tutta velocità.
    “Oh mio... Anche le divise della tua scuola sono carinissime!” constatò mia sorella, saltellando su se stessa per l’eccitazione. “Sarai contento, vero?”.
    “Come no. Sono una pasqua” risposi, atono, mentre mi chiedevo quante ancora altre migliaia di studenti dovessero uscire prima di poter finalmente tornare a casa e farmi una bella cioccolata calda.
    Nel frattempo, mentre aspettavamo pazientemente che l’ondata di giovani finisse, notammo come alcuni di loro ci ignoravano, altri, invece, ci fissavano con sorpresa, altri con sospetto e forse alcuni anche con minaccia. Non saprei dirlo, dato che in quel momento l’unica cosa che mi premeva era far ritorno a casa. Tant’è che mi accorsi non so quanto tempo dopo che tre studentesse si erano avvicinate a mia sorella e che le avevano chiesto qualcosa in inglese, ma lei le aveva stupite cominciando a destreggiarsi con la loro lingua, iniziando, quindi, quella che sembrava essere una piacevole conversazione.
    Eh no... Adesso devo pure starmi a sorbire le tue chiacchierate? Pensai, mentre la fulminavo con lo sguardo. Hai capito male, ragazzina.
    Dovevo intervenire ed intervenire immediatamente. Non capendo neanche una virgola di quello che stavano dicendo, allora, feci per interrompere la loro amabile conversazione, quando ad un tratto mi fermò un tonfo, che portò la mia attenzione su una cartella nera di plastica ai miei piedi che conteneva qualcosa: dei fogli. Alzando lo sguardo un pò più su, constatai che quella cartella doveva essere caduta a quel ragazzo, in ginocchio, sulla neve. Era chiaro come il sole che fosse scivolato e che avesse perso dalle mani ciò che gli apparteneva. La cosa più assurda era che nessuno di tutti quei giovani lo stava aiutando. Be’, forse perché la neve stava cadendo giù sempre più forte e, quindi, cercavano di recarsi al più presto in un posto riparato e caldo. Difatti notai che quasi più nessuno si fermava a guardarci da lontano, o appena uscito dal cancello, ma non appena mettevano piedi fuori dalla scuola aprivano l’ombrello e si dirigevano in tutta fretta in qualche bar, pasticceria o negozietto che si trovasse nei paraggi.
    Sospirai nuovamente, mentre mi piegavo per raccogliere la cartella del ragazzo, che ancora stava cercando di ricomporsi. Mentre sistemavo i fogli che stavano uscendo fuori per rimetterli dentro la cartella, mi accorsi che non si trattavano di semplicissimi fogli dove prendere appunti o scriverci sopra, ma fogli da disegno. E i disegni che vi erano raffigurati sopra erano... magnifici? No, era troppo poco definirli semplicemente magnifici. Che sia chiaro, non ero un intenditore d’arte, nè tanto meno mi interessava, ma... quei disegni raffiguranti un tramonto, una cascata, un prato fiorito... erano davvero fatti a meraviglia. Sembravano fotografie, nonostante fossero state semplicemente disegnate con una matita e ricalcate con della china nera.
    Che li abbia disegnati lui? Mi chiesi, mentre continuavo a guardare quei disegni, preso dalla loro vitalità e dalla loro bellezza.
    “A… Ano’... * sentii all’improvviso esordire, con voce flebile, a pochi centimetri da me.
    A quel punto distolsi lo sguardo dai fogli e davanti a me ritrovai il giovane proprietario di quelle meraviglie. E lì ebbi un nuovo sussulto. Azzurro. E’ la prima cosa che vidi e su cui mi soffermai non ricordo neanche per quanto tempo. Non potevo crederci... era assurdo! Il ragazzo che mi stava di fronte aveva degli occhi azzurri, come quelli del mare. I lineamenti del viso erano delicatissimi, al punto tale che, se non avesse portato i pantaloni, l’avrei potuto scambiare tranquillamente per una ragazza. Aveva un corpo all’apparenza molto esile e dei capelli neri un pò mossi che gli arrivavano sino alle spalle. Infine, tranne un pò la conformazione degli occhi, leggermente a mandorla (e neanche tanto), non aveva niente di giapponese. Davvero niente.
    Rimasi scioccato. Non tanto per la bellezza di quel giovane, quanto per la stranezza del suo aspetto. Insomma, i giapponesi non avevano gli occhi azzurri, no? E poi era anche alto. Non alto quanto me, ma un buon metro e settanta lo raggiungeva senza problemi.
    “A... Ano’... Sumimasen... * riprese nuovamente lui, con leggero imbarazzo mentre il suo sguardo andava dal marciapiede a me.
    In quell’attimo mi accorsi di averlo fissato in silenzio per più di cinque minuti, mentre tenevo in mano la sua cartella. Sicuramente gli dovevo esser sembrato strambo. Non sapevo quello che mi aveva detto, ma una cosa era certa: sicuramente rivoleva i suoi disegni.
    “Oh, già, è vero. Eccoti la cartella, ti era caduta” mi limitai a dire, riconsegnandogliela tra le mani. Anche lui non doveva aver capito una virgola di quello che avevo detto, ma notai che non appena gli riconsegnai la cartella, arrossì e abbassò il capo.
    “A...Arigatou gozaimasu * disse, mentre s’inchinava formalmente verso di me.
    Che diavolo sta facendo...? Mi chiesi, sbigottito. Ah, già... Debra mi ha detto che loro sono soliti inchinarsi quasi per tutto. O, perlomeno, quelli educati.
    A quel punto, dopo un’attenta analisi e qualche ragionamento, arrivai alla conclusione che forse mi stava ringraziando e quindi mi limitai a ripetere nella mia lingua che non c’era problema e che non era stato nulla di che. Anche se ero certo che anche quella volta non avrebbe capito.
    Avrei anche potuto dirgli qualcosa in inglese, ma non ero molto bravo nei discorsi lunghi, quindi mi astenetti dal farlo.
    A quel punto mi sentii chiamare da mia sorella, che nel frattempo era stata portata da quelle ragazze vicino una pasticceria. Il mio intuito mi diceva che mentre io ero occupato a parlare con quel ragazzo, loro si erano andate a fare una scorpacciata di dolci.
    Debra mi chiamò ancora una volta e questo era segno che la nostra avventura nelle scuole doveva essere finalmente finita. Soddisfatto, allora, le annunciai che stavo arrivando e rivolsi per un’ultima volta l’attenzione a quel giovane che ancora stava lì davanti a me.
    “Lo so che non puoi capirmi, ma io adesso devo andare, d’accordo? Ciao” mi congedai in tutta fretta, mentre gli davo le spalle e facevo per attraversare la strada, al fine di arrivare all’altro versante dove si trovava mia sorella.
    Mentre aspettavo che il semaforo diventasse blu (ovvero verde, da noi) mi venne, però, in mente una cosa.
    Oh, quasi dimenticavo!
    Mi voltai nuovamente verso il giovane che, nonostante il mio saluto, era rimasto ancora lì a fissarmi, con la cartella stretta al petto, e dichiarai: “Nice drawings”.
    Lo vidi, allora, sussultare all’improvviso, come se gli avessi detto qualcosa di scioccante, al punto tale che quasi mi chiesi se non avessi sbagliato pronuncia o chissà cos’altro. Era vero, non ero un asso in inglese e non avrei saputo intrattenere un discorso più lungo di dieci parole neanche con un dizionario aperto davanti agli occhi, ma qualcosina la sapevo dire anch’io. Specialmente se erano frasi o concetti brevi. In un secondo momento, pensai che forse non sapeva l’inglese, ma ragionandoci su, ricordai che i giapponesi lo studiavano l’inglese e forse anche meglio degli italiani.
    A quel punto, però, lo vidi sorridere ed arrossire nuovamente, guardandomi con un’espressione dolce e gentile.
    Ah... Ha capito.
    Doveva aver compreso che il complimento era rivolto alla sua bravura nel disegnare. Non è che ci fosse un particolare motivo per il quale gliel’avessi detto. Semplicemente mi andava di farlo.
    E, con ciò, mi voltai nuovamente verso il semaforo, ora verde, e attraversai la strada ricoperta di neve.

    *** NOTE DI TRADUZIONE DELL'AUTRICE ***


    - A… Ano’.. = "E... Ecco..."
    - A... Ano’... Sumimasen.. = "E...Ecco... Scusa..."(il nostro "scusa" per attirare l'attenzione di qualcuno, ma contemporaneamente per chiedere perdono in quanto a suo avviso gli sta arrecando del fastidio)
    - A...Arigatou gozaimasu = "G... Grazie mille"

    *** FINE NOTE DI TRADUZIONE DELL'AUTRICE ***




    *** Fine Capitolo I ***

     
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    Ciaoooo =)
    Per colpa dell'email che non mi è arrivata rischiavo di perdermi il capitolo >.<
    Bravissima come sempre e bel capitolo e io adoro sempre di più il protagonista XD
    soprattutto con i suoi commenti XD
    Al prossimo aggiornamento =)
     
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9 replies since 3/2/2012, 18:17   132 views
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