Un Commercialista da favola

One shot | Fantastico | Sentimentale

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    Prompt: 10

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    «Il numero di matricola come spia!», esclamai osservandomi allo specchio. Ridacchiai e mi sfilai la canotta di Gintama con cui dormivo d’estate.
    Ormai era diventato un rituale; tutte le mattine, appena mi svegliavo, la prima cosa che facevo era guardare la punta del mio gomito sinistro allo specchio e provare a indovinare cosa significassero i numero che vi erano impressi sopra.
    12 06.
    Un mistero lungo una vita, pensai tra me infilandomi una maglietta senza maniche bianca con stampato sopra il volto di Yona (vedi Akatsuki no Yona) incorniciato da una selva di gigli in perfetto stile Art Nuveau che io stessa avevo vi avevo disegnato e un paio di pinocchietti in jeans sbiaditi e strappati.
    Quei numero erano lì, sul mio gomito, fin dalla nascita. All’inizio erano così piccoli da sembrare un semplice neo, ma poi, a mano a mano che crescevo, si erano ingranditi fino a diventare delle cifre ben visibili. I dottori ne erano rimasti perplessi, mia madre li trovava inquietanti, manco fossero un marchio del maligno o roba simile.
    Io li trovavo affascinanti.
    Potevano voler dire qualsiasi cosa, e da qui era nato il mio gioco-rituale mattutino. Negli anni avevo ipotizzato le cose più assurde, dal numero di bignè al cioccolato bianco che avrei mangiato nella vita, alla data di un possibile attacco extraterrestre al numero di peli che mi sarebbero cresciuti sotto le ascelle se non avessi provveduto a tosarmi regolarmente. Ultimamente avevo virato su ipotesi più giallo-misteriose, forse a causa di tutti quei telefilm pieni di sbirri che guardavo ultimamente.
    Raccolsi i corti capelli in una coda alta con vari elastici colorati, lasciando che schizzassero da tutte le parti, e mi riempii polsi e caviglie con braccialetti di ogni sorta e colore. Mi diedi un’ultima occhiata allo specchio, non al gomito stavolta, e, soddisfatta, calzai le infradito bianche con fiorellini fucsia in tono con le unghie viola.
    Misi in un borsone il mio costume per il flash mob che si sarebbe tenuto quel pomeriggio a due passi dal mio posto di lavoro e andai in cucina a fare colazione. Due Kinder Pinguì e thè freddo all’ananas e limone. Con quel caldo infernale non riuscivo a ingurgitare altro. Dopo aver salutato mia madre, che aveva lanciato un’occhiata rassegnata al mio abbigliamento e una mesta al mio borsone, salii sulla mia Mini Cooper rosso fiammante e andai al lavoro.
    Poco dopo essermi diplomata, avevo scoperto che le offerte di lavoro che venivano messe in giro erano perlopiù una farsa, del tipo: cerchiamo ragazza top model max 18 anni laureata in economia e commercio per lavoro di stagista call center con comprovata esperienza pluriennale. Di fatto era impossibile trovare lavoro, perciò avevo deciso di inventarmene uno io, uno che mi piacesse, oltretutto. E così ero finita a vendere vestiti, perlopiù magliette, che decoravo io stessa ad una bancarella a due passi da una scuola superiore in pieno centro. In quella piazzetta si potevano trovare tutti i giorni bancarelle di vario tipo, tra cui anche la mia, e la vicinanza con una scuola piena di adolescenti, in quegli anni in cui manga e anime andavano tanto di moda tra i teenager, era un toccasana per i miei affari. Con somma goduria dei loro genitori, ridacchiai tra me ripensando alla faccia della mamma quand’ero uscita di casa. Chissà quant’erano contenti che di vedere i figli abbigliati come me!
    Parcheggiai nel mio solito spiazzo e tirai fuori un paio di tavoli dal bagagliaio. Vi sistemai le mie ultime creazioni, che spaziavano da magliette di One Piece a canotte di Skeap Beat e dei Pockémon per i più piccoli, e mi sedetti, in attesa di clienti. Non dovetti aspettare molto.

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    ***

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    Maledetti semafori! Inveii tra me mentre con una sgommata mi precipitavo nell’ultimo posto libero del parcheggio, prima che a qualche altro stolto venisse in mente di rubarmelo.
    Tutti rossi. Tutti!
    Per tutto il tragitto da casa all’ufficio non avevo incontrato altro che semafori rossi. Sette dannati semafori rossi, così adesso ero in ritardo all’appuntamento col mio miglior cliente, la proprietaria di una boutique d’alta moda in centro, Stacy Williams. Tenere in ordine i suoi conti era un’impresa degna di un poema epico, nessun altro commercialista a parte me l’aveva accettata come cliente, ma non era un problema. Mi ero ritrovato a gestire cose ben più difficili, prima, come mia madre, per esempio. E a proposito, mi chiedo se non ci sia il suo zampino dietro a tutto questo; quante probabilità ci sono che tutti i semafori sul tragitto fossero rossi?
    No, impossibile, mi dissi. Le nostre strade si erano separate anni fa, non poteva avere alcun interesse a infastidirmi a quel modo ora. Probabilmente. Speravo.
    Le 08:55. Dovevo essere in ufficio entro le 09:00. Purtroppo, il parcheggio che avevo trovato era a dieci minuti a piedi da lì. Imprecai tra me e iniziai a correre.
    Entrai nel bar dove abitualmente prendevo il caffè prima di iniziare a lavorare e ringraziai la buona sorte che non ci fosse quasi nessuno in fila. Ritardo o non ritardo, non se ne parlava di cominciare la giornata senza la mia dose di caffeina, soprattutto se dovevo incontrare una signora Williams inviperita per il mio ritardo.
    Sorbendo la vitale bevanda uscii dal locale.
    Dovevo saperlo che sarebbe stato un errore. Insomma, sette semafori rossi dovrebbero già essere un indicatore piuttosto preciso del fatto che tutto era destinato ad andare storto. Quel giorno, però, non dovevo essere particolarmente sveglio, altrimenti avrei captato sicuramente i segnali che l’universo si ostinava a mandarmi.
    Un gatto nero (poteva essere di un altro colore?) sbucò dal nulla e, per non calpestarlo, scartai di lato e urtai uno dei banchetti che si trovavano in centro a quell’ora.
    La prima cosa che notai, fu che il bicchiere di cartone col caffè era troppo leggero. La seconda, che la mia camicia era da buttare.
    La terza che la donna contro il cui banchetto ero andato a sbattere era davvero bellissima… e vestita in modo assurdo.

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    «Tutto bene?», mi chiese avvicinandosi.
    Aveva occhi grigi nascosti da enormi occhiali che sembravano diamanti e labbra a forma di cuore che pregavano di essere baciate. I capelli castani, trattenuti da una coda sbarazzina che la faceva sembrare più giovane, erano dritti come spaghetti e ribelli, proprio come sembrava essere anche lei. Sotto i jeans strappati al ginocchio e la maglietta con un ridicolo cartone sopra, si potevano intuire curve morbide e provocanti, perfette per riempire le mani e la bocca di un uomo.
    «No. La mia camicia è da buttare e sono in ritardo», dissi col respiro un po’ più corto, e non per la corsa.
    «A quello posso rimediare io», ribatté con un sorriso radioso che mi lasciò imbambolato. Subito il mio cervello iniziò a pensare in quali altri circostanze mi sarebbe piaciuto vederlo.
    Smettila, lo sai che cosa le farebbe tua madre se scoprisse che ti piace.
    Trattenendo un gemito, ripensai alle mie ultime tre relazioni e dovetti costringermi ad allontanare ogni pensiero impuro su di lei. Non la conoscevo, ma ero sicuro che non meritasse un simile trattamento. Nessuno lo meritava.
    La proprietaria del banchetto mi squadrò dalla testa ai piedi, girandomi intorno come un avvoltoio particolarmente affascinante. Arrossì e si morse il labbro, facendomi desiderare di sostituire i miei denti ai suoi.
    «Alla camicia, non al ritardo», continuò, riportandomi al presente. «Porti una tripla XL, giusto?».
    Lanciai un’occhiata al suo banchetto, pieno di magliette anche più assurde della sua. Non stava davvero suggerendo di vendermene una, vero? Non potevo certo andarmene in giro con i vestiti macchiati di caffè, ma quell’eventualità era anche peggio.
    No, sarei morto piuttosto che indossare una di quelle… cose. Avevo detto addio a certe sciocchezze quando me n’ero andato di casa.
    «Non è che le abbia immerse nella cacca di cane, sai», disse divertita notando il mio disgusto.
    Arrossii per l’imbarazzo. Non era da me comportarmi in modo così maleducato. «Ti ringrazio dell’offerta, ma ho già una camicia di ricambio in ufficio», mentii.
    «Per essere un colletto bianco menti da schifo».
    Feci una smorfia, contrariato. Come l’aveva capito?
    «Dai, non fare quella faccia», mi rabbonì. «Guarda, te la regalo la maglietta di ricambio».
    Guardai rassegnato le T-shirt esposte. Non potevo far altro che accettare la sua offerta, a quell’ora i negozi non erano ancora aperti. «Grazie», dissi infine. Più tardi avrei mandato Jillian, la mia segretaria, a comprarmi una camicia. Senza stupidi cartoni disegnati sopra.
    «Di niente», disse frugando nel mucchio. Si rialzò tenendo sollevate due magliette. «Della tua taglia ho solo Übela Blatt e Record of Lodoss War. Quale preferisci?».
    Le orecchie a punta la tunica… quelli erano dei maledettissimo elfi! «Proprio non ne hai altre?».

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    La mia faccia doveva essere piuttosto eloquente perché scoppiò a ridere. «No, mi spiace».
    Perfetto. Quella era sicuramente la ciliegina che completava una giornata da dimenticare.
    Presi dalle sue mani una maglietta a caso. «Capisco. Ti ringrazio…».
    «Rebecca Mallory. Per gli amici Becks».
    Quindi vuole che la chiami signorina Mallory o Becks?
    Le porsi il mio biglietto da visita, riluttante ad andarmene. Nonostante il suo pessimo gusto nel vestire, quella donna mi attraeva. Peccato che per il suo bene non avrei mai potuto approfondire la nostra conoscenza. «Se mai avessi bisogno di una consulenza, chiamami. La prima è gratis».
    «Tate Dunn, commercialista», lesse. Se ne stava appoggiata su un fianco al banchetto, le braccia incrociate che spingevano verso l’alto i seni e l’aria divertita. Mi ricordava un folletto dispettoso che aveva appena messo a segno l’ennesimo scherzo. Un bellissimo folletto...
    «Avrei detto avvocato», commentò.
    Prima che potessi rispondere, il mio cellulare iniziò a squillare. Era la signora Williams. «Devo andare», dissi senza rispondere. «Grazie di tutto».
    «Figurati. Alla prossima», mi salutò.
    Lanciandole un’ultima occhiata, mi costrinsi a voltarmi e mi diressi in ufficio. Era meglio così. Meno ci fossimo conosciuti, più probabilità avrebbe avuto di vivere una vita tranquilla.
    Appena entrai nello stabile che ospitava il complesso di uffici in cui lavoravo dissi a Jillian di andarmi a comprare una camicia nuova appena possibile.
    Passando davanti alle finestre del corridoio non potei trattenere un brivido. Quella T-shirt non solo era pacchiana, ma mi riportava anche alla mente cose con cui credevo di aver definitivamente chiuso molto tempo fa.
    Sospirai e, dopo aver chiusi tutti i bottoni della giacca nel tentativo di coprire il più possibile quell’obbrobrio, raggiunsi il mio ufficio, dove la signora Williams mi aspettava visibilmente irritata.
    «È in ritardo, signor Dunn», esordì gelida, poi notò la mia mise non proprio formale e spalancò gli occhi, disgustata. Se c’era una cosa che la signora Williams non sopportava, oltre ai ritardatari, era la mancanza di stile.
    Proprio una giornata fantastica…

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    ***

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    Rimasi a gustarmi il panorama mentre l’affascinante Tate Dunn Commercialista si dirigeva velocemente verso il complesso di edifici dall’altra parte della strada. Non c’è che dire, è bello davanti come è bello dietro…
    Peccato che fosse un tipo così ingessato. Se si fosse lasciato andare un po’, se avesse sorriso più spesso, sarebbe stato molto più bello. Non che avesse bisogno di aiuto su quel fronte. Oh no.
    Mr. Commercialista, pur facendo un lavoro sedentario, aveva un fisico tutto d’un pezzo, slanciato, muscoloso, ma non in maniera esagerata, come i bodybuilder, e alto, molto alto, almeno un metro e novanta. E il viso… oh, che viso! Lineamenti delicati, eppure non effeminati, piuttosto più come… come… beh, come un principe di Faerie, ecco come. Non mi veniva in mente altro modo per descriverlo. Zigomi alti, occhi tra l’azzurro e il grigio chiarissimi, labbra sottili e carnagione pallida, quasi diafana. I capelli biondi erano così chiari che se non avessi sentito il suo accento, tipicamente della zona, avrei detto che fosse scandinavo o qualcosa del genere. Insomma, proprio come gli elfi e le fate nei libri illustrati di favole che leggevo da bambina. E si muoveva con un’eleganza che non avevo mai visto nemmeno nei ballerini di danza classica. Più che camminare sembrava volare.
    «Ehilà, Tortellino. Sei in ritardo, oggi», dissi sentendo una palla di pelo che si strusciava contro le mie gambe. Presi in braccio il gattone nero e, dopo aver visto sparire il signor Dunn nell’edificio, tornai a sedermi con l’animale in braccio.
    Era un randagio di una razza non meglio specificata, piuttosto rotondetto, completamente nero. Da quando avevo cominciato a vendere magliette, alle nove precise Tortellino si presentava puntualmente a reclamare la sua dose di coccole e all’una in punto se ne andava per poi tornare a farmi un salutino attorno alle tre del pomeriggio.
    Il mio primo giorno lì si era presentato tutto impettito e si era messo a fissarmi, immobile, seduto di fianco a me. Dopo cinque minuti buoni si era alzato sulle zampe posteriori, aveva chinato la testa e mi era saltato in grembo, quasi fosse un cavaliere che mi aveva chiesto il permesso di avvicinarsi. Fu subito amore.
    All'ora di pranzo ero andata a mangiare alla trattoria che si trovava in fondo alla strada. Avevo una gran voglia di tortellini, ma dovetti accontentarmi di una pasta alla carbonara, non ricordavo perché. Allora, per consolarmi, decisi di chiamare il mio nuovo amico Tortellino.
    Facendo le fusa, il gatto si rigirò fino a mettersi a pancia all'aria sulle mie gambe. Ridacchiai, grattandogli il pancino. «Forse dovresti insegnare a Mr. Commercialista come si fa a rilassarsi».
    Tate Dunn. Un nome piuttosto insolito, eppure stranamente familiare. Avevo come la sensazione di averlo già sentito, ma era impossibile. Non mi sarei mai dimenticata un nome del genere, soprattutto dopo aver visto il proprietario.
    Posai a terra Tortellino vedendo avvicinarsi un cliente, un ragazzo di almeno vent'anni.

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    «Salve, posso aiutarla?».
    «Cercavo un paio di magliette per me e la mia ragazza. Uguali se possibile».
    «Certo. Ha qualche preferenza sul soggetto?».
    «Assassin’s Creed II?», chiese, più che rispondere.
    «Sicuro. Taglie?».
    In breve trovammo quello che faceva al caso suo e concludemmo l’acquisto. Dopo di lui ne vennero molti altri, attirati dal raduno che si sarebbe tenuto di lì a poche ore, e sommersa così dai clienti quasi non mi accorsi che i primi cosplayers erano arrivati.
    Affidai il mio banchetto alla coppia che gestiva quello di fianco al mio e corsi a cambiarmi. Vista la calura infernale, avevo optato per un costume leggero e corto, che non mi cuocesse come un toast. Mi tolsi velocemente pinocchietti e maglietta e infilai la corta tunica verde, poi mi legai alla vita una cintura e ci attaccai la spada finta che avevo ricavato da un pezzo del battiscopa di casa che si era irrimediabilmente staccato. Indossai gli stivaletti e le fasce alle braccia, mi assicurai a spalle e petto l’armatura finta e misi il mantello. Raccolsi i capelli per mettere la parrucca bionda, appuntii le orecchie con delle protesi di cartone et voilà! Deedlit era pronta a far baldoria.

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    Tornai al banchetto e notai che un sacco di altra gente in costume era arrivata e sfilava per la via riempiendola di colori. Ripensai alla faccia di Mr. Commercialista alla vista delle mie magliette. Se fosse uscito adesso dall’ufficio, gli sarebbe venuto un colpo!
    Adoravo l’arte del cosplay; non solo era una scusa perfetta per indossare di tanto in tanto quegli abiti in stile fantasy che mi piacevano tanto, ma era anche un’occasione di allegria. Come festeggiare carnevale più volte l’anno.
    Per tutto il pomeriggio fui occupatissima. Mi fermai solo per un panino al volo all’ora di pranzo e basta, e quando il sole cominciò a calare, mi lasciai cadere sulla sedia, esausta. I piedi mi facevano un male boia – dannati stivaletti strafighi – e avevo una fame da lupi.
    Raccolsi la merce e la caricai in macchina con la vitalità e l’entusiasmo di uno zombie dopo essermi liberata di mantello e armatura, parrucca e protesi. Il sacchetto in cui avevo riposto i miei abiti “civili” giaceva sul sedile posteriore dell’auto, ma non accennai a prenderlo. Ero troppo stanca e affamata per perdere tempo a cambiarmi. Ma sì, tanto devo solo andare fino a casa. Starò per tutto il tempo in macchina, non se ne accorgerà nessuno.
    Afferrai la maniglia della portiera e… qualcuno afferrò me.

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    Mi passò un braccio attorno, immobilizzandomi, e con l’altra mano mi tappò la bocca. Dal riflesso sul finestrino vidi un volto dai lineamenti affilati fissarmi con occhi dalle pupille verticali, come i gatti. Rabbrividii e presi a dimenarmi con foga maggiore, ma quel tizio aveva una forza sovrumana. Gli morsi la mano più volte, provai anche a tirargli calci ovunque riuscissi a raggiungerlo, ma non batté ciglio.
    In tutti gli anni che avevo passato in quella piazzetta non mi era mai successo niente del genere. Non si vedevano mai criminali, lì, non di giorno almeno. Mi guardai attorno, sperando di riuscire ad attirare l’attenzione di qualcuno, ma non c’era un’anima. Che diavolo succede? Questa zona non è mai deserta, nemmeno di notte. Dove sono andati tutti?
    Occhi-di-gatto mi trascinò lungo un vicolo poco lontano, apparentemente senza sforzo. Era una stradina deserta piena solo di immondizia e graffiti di dubbio gusto che sarebbe stata la location perfetta per una scenda di spaccio in un film. Arrivammo ad un incrocio e, una volta al centro di esso, la viuzza iniziò a tremolare davanti ai miei occhi e a sbiadire fino a sparire del tutto, sostituita da una lussureggiante foresta.
    Gli alberi iniziarono a girare vorticosamente e mi venne la nausea. Sentii le braccia che mi immobilizzavano allentare la presa e sollevarmi prima che tutto diventasse nero.
    In lontananza mi sembrò di sentire una voce familiare gridare: «Lasciala!».

    ***

    Non è possibile. Non può averlo fatto.
    Ma sapevo che l’aveva fatto davvero. Era proprio da mia madre agire così. In qualche modo aveva scoperto che ero attratto da quella donna e aveva reagito come sempre; mandando qualcuno a “sistemare la cosa”. Che nel suo caso significava aggredire e spaventare a morte. O, come in questo caso, rapire.
    Le altre tre volte avevo usato un incantesimo per far credere alle mie partner che si fosse trattato di un sogno e poi le avevo lasciate, ma ora ne avevo abbastanza.
    Appena uscito dall’ufficio avevo visto un elfo prendere Rebecca e trascinarla nel vicolo lì accanto. Non ci voleva un genio per capire il motivo. In quella stradina c’era un incrocio, un luogo di confine, e quindi un passaggio verso la mia terra natia, Faerie.
    Imprecando seguii la creatura fatata e arrivai nella foresta che circondava il palazzo della regina. Senza badare ai cortigiani che sussultavano al mio passaggio, mi precipitai nel salone principale, dove si trovava la donna che mi aveva causato tanti guai. Snella, alta, dalla pelle bianchissima e i capelli biondi quasi bianchi, gli occhi azzurri glaciali. Mia madre non era cambiata per niente.
    Come, previsto, l’elfo aveva portato Rebecca al suo cospetto. La ragazza giaceva immobile a terra, pallida. Dei lividi le deturpavano la pelle sul braccio dove lui l’aveva stretta. La pagherà per questo!

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    Raggiunsi il manigoldo, lo afferrai per la collottola e lo scaraventai dall’altra parte della stanza, poi mi chinai su di lei senza degnare di un’occhiata nessun altro.

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    «Rebecca! Rebecca, svegliati. Sei al sicuro, ora. Svegliati».
    Le sue palpebre tremolarono, e finalmente aprì gli occhi. «Mr. Commercialista…», mormorò.
    Mr. Commercialista? «Tutto bene?».
    «Sì», borbottò alzandosi a sedere. «Dove sono?».
    «Siamo a Faerie, la vera casa del principe Twayll», rispose al posto mio dietro di noi il gatto nero su cui ero inciampato quella mattina, indicandomi. «E il mio vero nome è Pinkle, a proposito».

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    La donna strabuzzò gli occhi, la bocca spalancata. «Aspetta, vorresti farmi credere che Mr. Commercialista è una fata?».
    La guardai incredulo. Era appena stata trasportata in un altro mondo, un gatto si era messo a parlare e l’unica cosa che la sorprendeva era che io fossi una fata? «Elfo», la corressi un po’ seccato. «Sono un elfo».
    «L’amico, qui, è un po’ suscettibile, eh, Tortellino?». Di nuovo, rimasi a fissarla sconcertato. Parlava col gatto come se fosse la cosa più naturale del mondo.
    «Che c’è?», mi chiese.
    «Non ti sembra strano che quel gatto parli?», domandai di rimando.
    Lei gli lanciò un’occhiata, poi rialzò lo sguardo su di me e fece spallucce. «Parlo con Tortellino da cinque anni. Che possa rispondermi, adesso, è solo una comodità in più».
    «È bello poterti rispondere, finalmente, Becks».
    La confidenza che quella palla di pelo mostrò nei confronti di Rebecca mi urtò alquanto. Soprattutto, non sopportavo che lui potesse chiamarla Becks e io no.
    «E così eri in combutta con mia madre. Hai fatto in modo che inciampassi».
    «Proprio così», intervenne la regina Argwyll si alzando in piedi, interrompendo sul nascere la nostra lite. «È da molto tempo che non ci vediamo, figlio».

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    «E avrei preferito che le cose continuassero così», sbottai seccamente.
    «Impertinente come al solito», disse incolore. Non si riusciva mai a capire cosa le passasse per la testa, non mostrava mai i suoi sentimenti, e questo mi aveva sempre fatto impazzire.
    «Cosa significa tutto questo, madre?», chiesi indicando Rebecca.
    «Già, cosa significa?», mi fece eco Rebecca scostandosi un ciuffo dalla fronte.
    Strinsi gli occhi e le afferrai il braccio. Sul gomito vi era impresso un marchio fatato. 12 06. «Cos’è questo?».
    «Niente, solo una strana voglia che ho dalla nascita».
    «È oggi», dissi in tono cupo, lasciandola andare.
    «Oh, intendi dire il 12 giugno?».
    «Madre, esigo una spiegazione», dissi gelido. «Perché l’hai marchiata?». Ormai era chiaro che i semafori, il caffè rovesciato e la data impressa sul suo gomito fossero tutti opera della regina Argwyll.
    Ero senza parole per la rabbia. Mia madre non faceva altro che manipolare tutto e tutti per i suoi scopi, incluso me. Era anche per questo che me n’ero andato da Faerie, ma era stato tutto inutile; ovunque andassi, lei mi avrebbe sempre trovato. E manovrato.
    «Non devo spiegare proprio niente», replico altera.
    «Quindi questa non è una voglia?», mi domandò Rebecca toccandosi il gomito.
    «No. È un marchio con cui il mio popolo segna qualcuno che ha una certa importanza per lui. In questo caso, quel marchio serviva a dire che eri destinata a conoscermi oggi».
    «Oh. E perché doveva incontrare proprio me?», chiese a mia madre.
    Lei non rispose, limitandosi a fissarla inespressiva. Un sorriso divertito iniziò a piegare le labbra di Rebecca finché non scoppiò a ridere. Sia io che mia madre la fissammo disorientati. Una delle rare, per non dire uniche, volte in cui un sentimento trapelava dal volto della regina Argwyll.
    «Trovi tutto questo divertente?», le domandò accigliata.
    «Cazzarola, sì!», esclamò. «Ora capisco perché suo figlio non sopporta le mie magliette».
    Rimasi spiazzato dalla sua risposta. «Che vuoi dire?».
    «Sei arcistufo di tutte queste diavolerie, vero? Tutto quello che vuoi è la tranquilla, banale, normalità».
    Scossi la testa, sbalordito. Nessuno, nessuno, nemmeno mia madre, aveva mai capito davvero le ragioni del mio esilio volontario. Per tutta la vita avevo dovuto destreggiarmi tra gli inganni che tanto divertivano i miei simili e le macchinazioni di mia madre, una maestra della manipolazione. Mi ero sempre sentito un suo burattino e la cosa mi aveva esasperato al punto da farmi decidere di abbandonare la mia terra. Come accidenti l’aveva capito, lei?
    «Se voleva farmi conoscere suo figlio, bastava che mi facesse volare via il mantello addosso a lui o qualcosa del genere. Mi creda, sarebbe stato più che sufficiente», disse rivolgendomi un’occhiata maliziosa.
    «Forse, ma così era più divertente».
    «Oh. Giusto». Sembravano serie, come se la faccenda del divertimento fosse davvero importante.
    «Non ti da fastidio che ti abbia manipolata fin dalla nascita?», chiesi sentendo riaffiorare secoli di risentimento. Mia madre aveva manovrato Rebecca come per anni aveva fatto con me.
    «Non l’ha fatto».
    «Cosa? Hai sentito una sola parola di quello che è stato detto finora?». Possibile che non capisse?
    «Certo. Tua madre ha solo cercato di farci incontrare. Il resto è venuto da noi», rispose.
    «Proprio così. Sono felice che almeno lei abbia capito», disse sorridendole. «Poco dopo la tua nascita ebbi una visione. Di te e di una donna umana insieme, felici», spiegò. «Per secoli l’ho cercata e quando finalmente è nata, l’ho contrassegnata per accertarmi che la trovassi, un giorno».
    «E a lei non hai pensato?», esplosi, le mani strette a pugno. «Ti sei mai chiesta cosa volesse lei? No, hai solo pensato a te stessa, come sempre».
    Rebecca mi prese la mano. «Anch'io ho avuto quello che volevo», disse sorridendomi dolcemente. «Un amore magico», spiegò, quando si accorse della mia confusione.

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    Le implicazioni di quel'’affermazione penetrarono il velo rosso di rabbia che avevo davanti agli occhi calmandomi all'istante. «Era questo che volevi?», mormorai.
    «Sì. E anche degli occhiali muniti di tergicristallo, ma mi accontento», scherzò.
    «E ti va bene così? Anche se è stato qualcun altro a scegliere per te?». Non lo capivo. Come poteva accettarlo così serenamente?
    «L’importante non è chi ci ha fatti conoscere o come, ma il fatto che ci siamo incontrati».
    La fissai in tutto il suo splendore di nerd un po’ strampalata, e in quel momento non vidi il vestito assurdo, ma solo il bellissimo folletto sempre allegro che mi incendiava il sangue. Guardandola negli occhi compresi che aveva ragione, contava solo che ci fossimo trovati.
    Capii anche che non avrei potuto stare con nessun’altra donna. Lei mi capiva come nessun altro e, soprattutto, sembrava tollerare di buon grado il fatto che non fossi umano.
    «Becks…». D’ora in poi l’avrei chiamata solo così, che lo volesse o no.
    «Tate», mormorò, poi sorrise e scosse la testa. «Ora ho capito».
    «Cosa?».
    «Tate Dunn. Hai cambiato le parole “Tuatha de Danann". Che fantasia…», mi prese in giro.
    «Concordo», sentii borbottare mia madre. Giusto, eravamo ancora alla corte di Faerie.



    Avevo un sacco di cose di cui discutere con Becks, ma quello non era decisamente il posto adatto.
    «Dobbiamo tornare», dissi.
    Mia madre annuì e, per una volta, non provò a fermarmi. «Abbiate cura di voi. E venite a trovarmi, qualche volta».
    Stavo per rifiutare, come facevo sempre, ma mi fermai. «Volentieri. Arrivederci, madre», dissi invece, cogliendola di sorpresa. Certo, la regina Argwyll era una fredda manipolatrice, ma con questa sua “iniziativa” per la prima volta avevo scorto un lato di lei molto meno calcolatore, uno che valeva la pena di conoscere meglio.
    Al mio fianco Becks mi sorrise e, dopo aver preso in braccio Tortellino-Pinkle, mi seguì fuori dal palazzo, nella foresta da cui eravamo arrivati. Per tutto il tragitto bombardò il gatto di domande su Faerie e le creature fatate, soprattutto gli elfi. Venne fuori che era praticamente un’esperta di leggende celtiche e affini. Sorrisi. Avevo proprio trovato la mia anima gemella.

    ***

    Quando tornammo nel vicolo, mi sembrò quasi che fossero passati anni, invece che poche ore. Quante cose erano cambiate! A partire dalla mia visione del mondo. Ora che sapevo per certo che in cielo e in terra c’erano molte più cose di quante credessi, la vita mi appariva improvvisamente molto più interessante.
    «Stai davvero bene?», mi domandò Tate, anzi no, il principe elfico Twayll preoccupato.
    «Sì. Sono così elettrizzata! Elfi, fate… tutto quello di cui leggevo da bambina, è tutto vero!».
    Scosse la testa. «Possibile che tu riesca ad accettarlo così facilmente? Il mondo per come lo conoscevi non esiste più…».
    «Infatti, ora è molto meglio».
    «Bene», si arrese.
    «Aspetta che lo scopra mia madre. Nemmeno lei sopporta le stramberie».
    «Andremo d’accordo, allora», borbottò con una smorfia.
    Misi giù il gatto nero e abbassai gli occhi sul mio costume, prendendo in mano l’orlo del vestito. «Ci credi? Ho conosciuto tua madre, la regina degli elfi, a Faerie vestita da elfa».
    «Molto appropriato», disse incolore. Nascosi un sorriso. No, proprio non gli piacevano le stramberie, poverino.
    «Dobbiamo parlare», esordì, ma scossi la testa.
    «Più tardi», dissi, e cingendogli il collo con le braccia lo baciai.

    Video

    Fu un bacio appassionato, di quelli che ti lasciano senza fiato e con la testa vuota. Non so per quanto durò, ma mi sentii bruciare per tutto il tempo. In quel bacio riversammo tutto ciò che non avevamo detto, ma che avevamo capito fin da quando i nostri occhi si erano incontrati la prima volta.
    «Ti amo», dicemmo contemporaneamente quando ci separammo. Ci scambiammo un’occhiata e ridacchiammo come due ragazzini.
    «Mi ami anche vestita così?», lo stuzzicai.
    Mi squadro dalla testa ai piedi e sospirò. «Suppongo che mi ci abituerò».
    Il gomito cominciò a pizzicare e mi voltai verso una finestra per vedere cosa fosse. Scoppiai a ridere.
    «Cosa c’è? Va tutto bene?», domando preoccupato.
    «Direi che hai pienamente dimostrato il tuo amore per me accettando il mio gusto nel vestire».
    Mi guardò confuso e allora gli mostrai il gomito. Al posto della data 12 06, c’era scritto Congratulazioni.

    781ebb9d3974096c8d697007dfda5862



    Edited by CarryB - 10/5/2017, 21:18
     
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    Bella one shot Carry-B ... amante del piccolo popolo? credevo che nessuno conoscesse la tribù della Danu ...
    il racconto mi è piaciuto molto, il personaggio di Becks è molto ben dettagliato e ammetto che mi piacerebbe somiglialre un pò di più nella vita ordinaria, allegra, sicura, autonoma, ironica ...
    Come lei invece, non sarei scioccata dal sentire parlare un gatto e nel gironzolare per un palazzo elfico dopo essere stata aggredita in un crocevia ... *_*
    Bell'ambientazione, un modo di descrivere fluente e colorato, scivolata dal normale al extra-ordinario ben preparata e assolutamente credibile ... molto piacevole da leggere. *_* :2aqY26u:
     
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    Grazieeeeeeeeee Akira-kun!!! È la prima volta che "pubblico" un mio racconto e avevo una fifa blu XD
    Sono felice che ti sia piaciuto, mi sono divertita un sacco a scriverlo <3
    Quanto al piccolo popolo... Ti dico solo che uno dei miei cartoni preferiti è Hakushaku to yosei, eheh...
     
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    Ciao CarryB, siccome i nomi degli anime giapponesi non li ricordo nemmeno sotto tortura sono dovuta andare a vedere se conoscevo l'anime che indicavi *_* ebbene l'ho visto anche io all'inizio senza sapere che riguardava le fate (l'ho riguardato due volte con vero divertimento) ... rilancio dicendoti che l'anno scorso ho fatto una piccola mostra sulle fate ,passando dal green man ,a Pan, per sogno di una notte di mezza estate per arrivare ai cerchi delle fate ...incantesimi ,leggende e deità celtiche ...quindi sfondi una porta aperta.
    avevo iniziato a scrivere un racconto che ha preso la piega di un romanzo ( sono logorroica a volte e mi sono trattenuta per la One shot anche se ha un prima e un dopo che sto scrivendo e mi acchiappa molto*_*) con angeli, mezzo sangue, mutaforma, fate nel mondo umano ...stile giallo a cui manca il finale ... e che riprenderò appena i protagonisti torneranno a gironzolarmi per il salotto di casa raccontandomi come finisce.
    Anche per me è il primo contest ... e come te mi sento emozionata ,felice, in sospeso ... sono felice di aver deciso di essere meno gelosa e di aver partecipato ...è una cosa nuova e sarà comunque un successo ... :qBnMbad:
     
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    Logorroica... :f5y.gif: non dirmelo, ci ho messo giorni a snellire la mia one shot :ye3.gif: e non sono comunque riuscita a togliere più di una paginetta di word :wz3.gif: :im9.gif:
    E così è la prima volta anche per te. Ho appena letto la tua storia, e spero proprio che ci sarà anche una seconda :jPtvWnS:
     
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    Mi è piaciuta tanto la tua storia, Carry B e il personaggio di Rebecca mi ha colpito molto. È divertente, solare, pieno di energia e creatività. Adoro queste donne dal carattere forte e deciso, che sanno vivere la vita con positività. L'inizio mi ha subito catturata e l'incontro con Tate Dunn è stato troppo carino e divertente xD Ho apprezzato che tu abbia aggiunto delle immagini che descrivessero i personaggi. Me li ha fatti immaginare meglio durante la lettura ^^ Davvero una bella storia fantasy e tuo modo di scrivere è piacevolissimo :) Bravissima e complimenti :D
     
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    Complimenti, ho letto la tua storia e mi è piaciuta l'idea del racconto in prima persona per non parlare della descrizione di ambientazione e personaggi :) mi sembrava quasi di essere lì con loro.
    Ho solo un dubbio la corporatura di lui:
    All'inizio lei chiede «Porti una tripla XL, giusto?» e non sembra lo dicesse scherzando però poi scrivi "Mr. Commercialista, pur facendo un lavoro sedentario, aveva un fisico tutto d’un pezzo, slanciato, muscoloso, ma non in maniera esagerata, come i bodybuilder, e alto, molto alto, almeno un metro e novanta" è una sciocchezza però all'inizio mi ha lasciata un po' perplessa, ma questo non ha influito minimamente sulla bellezza del racconto :)
     
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    Prima di tutto, grazie Shion, Valuzza :wr5.gif: :ct6.gif:
    Sì, in effeti avrei potuto spiegarmi meglio :7dNtM2J: ; tripla XL era intesa più per l'altezza, nel senso dal collo alla vita, più che per il girovita (cioè, uno alto 1,90 m che indossa una maglietta taglia M, per dire, gli rimane la pancia di fuori, anche se è magro. Ho un cugino che è alto poco più di Tate, che ha riscontrato più volte questo problema al momento di comprare nuovi vestiti :rmm.gif: ). Per quanto riguarda la dose di muscoli, avevo in testa tipo Legolas/Orlando Bloom; non muscoloso, ma neanche proprio magro :ah: :)
     
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  9. silverwillow
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    Mi è piaciuta molto questa storia :3rk.gif: , non mi aspettavo fosse fantasy quindi mi ha piacevolmente sorpresa(adoro il genere).Per essere una storia breve è avvincente e la protagonista mi sembra ben delineata.Mi piace anche com'è scritta,scorrevole e piacevole da leggere.Potrebbe essere una bella trama anche per un romanzo!Complimenti :10e3.gif:
     
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    Grazie, mille silverwillow :wr5.gif: :ct6.gif:
    In effetti, ho faticato un po' per farla stare dentro una one shot breve, eheh :fjdw.gif: . Mi sarebbe piaciuto poter ampliare le scene con Tortellino, o approfondire la visita di Becks nel regno degli elfi. Mah, magari ci provo alla prossima contest :10e3.gif:
     
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    Ajisai
    E' un racconto molto interessante!!!
     
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    Complimenti! La storia è originale, divertente, ben scritta! C'è amore, un pizzico di azione, ma soprattutto magia :) Sei stata molto brava, mi è piaciuta davvero molto :]
     
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