Sen Shiroi Tsuru

Kaikan phrase - VM 18

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  1. Anissa9
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    Prima fanfiction che posto, in questo forum.
    L'ultima che ho messo in cantiere, assieme a molte altre, in vari fandom. Perchè ho iniziato da questa? Mmm. Non c'è una ragione precisa. E' quella più "fresca" e cui ultimamento sto pensando di più. Anche perchè -posso dirlo?- dovrebbe essere il canovaccio per una storia "originale".
    Ma tralasciando questo.
    Kaikan phrase.
    L'ho conosciuto da "adulta", e questo -ritengo- ha influito il mio giudizio sul manga e la creazione di questa piccola storia. E, a voler esser sinceri e obiettivi, ne ho apprezzato di più l'anime, molto più lento nell'evoluzione della storia sentimentale, per quanto devii drasticamente dalla trama originaria. Non vuole essere una critica; solo una constatazione.
    Di contro, nella storia, ho fuso le due realtà, cartacea e animata. Non me ne vogliano i puristi se ho volato troppo con la fantasia.
    Ci sono dei perchè di alcune scelte narrative che ho compiuto. E - se possibile - li illustrerò; in calce alla storia o, al massimo, sotto spoiler. Perchè prevedono lo svelarsi di alcuni particolari dissemitati qua e là. Anticipazioni.

    La storia, dunque.
    La storia è incentrata su Sakuya. Su di lui e sui mesi che intercorrono dal successo del primo singolo dei Lucifer all'incontro con Aine.

    SPOILER (click to view)
    C'è una donna, in questo periodo, nella vita di Sakuya. Una donna nel senso pieno del termine. Adulta, affermata e "perduta". Ci sono nove anni, fra Naora Komon e Sakuya Okouchi. Nove anni, e un modo diverso di vivere e vedere l'amore.
    Sakuya ha provato il sesso; l'amore non lo ha mai pensato. Naora è grande, Naora ha un qualcosa che lo attira; Naora è l'amore che Sakuya - un bambino- aspetta, senza volerci credere davvero.
    Dall'indifferenza alla conoscenza alla complicità di una storia che è un tabu, destinata a lasciare solo un ricordo e una croce al collo di un ragazzo.


    Nota: il raiting è VM 18. La scelta non è dovuta tanto alla presenza di scene erotiche esplicite (accennate sì, non anatomiche. MAI!) o all'uso di un linguaggio triviale, quanto piuttosto alle temtiche che verranno affrontate in corso di narrazione.


    Serie: Kaikan Phrase
    Titolo: Sei Shiroi Tsuru-1000 gru bianche
    Raiting: VM 18
    Riassunto: Prima di Aine. Prima del crescere lento (di nuovo) di un sentimento. Prima che una croce pendesse dal collo di Sakuya.
    Dopo il primo successo dei Lucifer, una ragazza intreccia la sua vita con quella di Sakuya. Dall'indifferenza alla conoscenza alla complicità di una storia che è un tabu, destinata a lasciare solo un ricordo e una croce al collo di un ragazzo.
    Annotazione: perdonate la grafica, ma non riesco a impaginare come in Word.



    Sen Shiroi Tsuru
    1000 gru bianche




    1.Assolo

    La rassegna stampa; l’intervista al magazine e la seduta fotografica. E la sessione di prove e i dati da ricevere e le nuove canzoni da preparare. Soprattutto le canzoni. Il nuovo singolo è stato annunciato; e il conto alla rovescia è ricominciato.
    L’acqua alla gola. Una sensazione piacevole, di quel soffocamento che ti spinge, ti preme nello stomaco e dietro, quando scavi, trovi il piacere. Della voglia di sfidare, di sbattere in faccia a tutti che tu (proprio tu: sì, quello bastardo) ce la puoi fare. Hai buone gambe e spalle larghe e delle occhiate di scherno sai fregartene. Andare avanti, a testa alta e giocare. Con i giorni, con il mondo, con tutto. Con la vita. Con quella fottuta vita che ti ha fatto detestare (ironia. Vecchia stupida scontata ironia) la faccia (gli occhi) che ti ritrovi e che –lo sai – ti fissano cattivi dalla copertina del CD.
    Acqua alla gola. Una bella sensazione, di solito. Ma questa volta no, non va bene. Questa volta, Sakuya sente di non avere fretta. Una qualcosa che pizzica la testa e martella lì, vicino alla tempia. Toc toc toc.
    Vorrebbe tempo. E non ne ha.
    Tempo per tornare, riassaporare il gesto lento dell’acqua versata nella teiera e il movimento seducente del polso sotto il kimono. Tempo. Riascoltare il silenzio e ricordarsi che è come un altro rumore. Più forte e penetrante, capace di farti male (molto male), ma è solo un rumore. Quello più completo.
    Tempo.
    E convincersi che le parole sono solo parole e non dicono mai la verità. No, non tutta la verità. Le parole sanno mentire, devono mentire. Si parla anche se non si dice niente. Si parla. Ma le parole, tutte le parole, sono solo suoni suoni suoni. Non significano niente, non sono niente. Le puoi cancellare, vero? Le appallottoli e le getti lontano. Lo puoi fare, vero? Fare a pezzettini la carte, stirare bene le braccia (lì sul collo, dove la tensione tende i muscoli) e riprendere: foglio bianco. Tanto, non è successo niente, vero? Le altre parole (quelle vecchie. Quelle sul foglio piegato, strappato, appallottolato) non ci sono più, vero? Perché le parole sono solo parole. E ti raccontano sempre una storia. Anche quelle che non ti piacciono e non vuoi sentire. Ma puoi cancellarla, la storia. Non è niente; sono solo parole.
    Vero, Sakuya?
    La matita. Prendi la matita; ti ricordi dov’è, vero? Guarda: proprio lì, accanto alle cuffie. No, lascia stare. Non ci provare, Sakuya. Non guardare la copertina del CD; non provarci nemmeno a sfiorare il filo, il tasto. Play non lo vuoi premere, Sakuya.
    Sono solo parole.
    Solo parole. Non vogliono dire nulla. Te lo ricordi, vero? Le devi solo cambiare. Non suonano. E tu, le parole stonate, le correggi, vero? Sì, Sakuya. Te lo ricordi, vero?
    Il foglio; la matita. Una croce su ogni ideogramma; e premi bene, con il polso fermo (no. Non tremare. Chikuso! Non tremare!) e una croce (X) su tutto. Ecco, bravo. Una croce…una croce, una tomba. Le puoi uccidere tutte, quelle parole. Non significano niente, non è vero? Sono volo pensieri lo sai anche tu. Non sono veri. Non possono essere veri.
    Sakuya.
    Sono il tuo lavoro, le parole. E le seppellisci, le parole.
    Una, due, tre. No, non importa; non sono tue, le parole. Fa niente, ignora. Giocale come vuoi. E mi dispiace diventa sono felice. E tu diventi lui, e lei…Lei…

    “Naora”




    *****







    “Hai saltato anche oggi”
    Yuki ripete sempre le stesse cose; con quel tono tranquillo, pacato, che ti lascia addosso una sensazione fastidiosa. Di vischioso, e scivoloso. Irritante. Perché Yuki le cose le dice sempre come stanno; e di rimproverarti non si disturba mai. Poche parole (una costatazione) e poi il solito silenzio.
    Parlare con Sakuya è complicato. Ci sono volte che ti sta lì, di fronte, e ti fissa. Ti fissa e non ti guarda; e tu puoi parlare e parlare anche per ore intere, e lui continuerà a guardarti. Ma quello che dici, quello che dici davvero, non lo sta ascoltando. E alla fine. Alla fine si alza e se ne va; e di quello che gli hai detto tu non ha ascoltato un suono. Ci sono volte in cui, in quella sua testa dura, non ci puoi far entrare nulla; se ne sta chiusa e barricata e anche se urlassi e ti sgolassi, Sakuya non sente. Ma ci sono volte, quando inclina appena la testa, mentre il labbro (sottile) si tende, si stira appena (un abbozzo); ci sono volte che non te lo aspetti e, eccolo, interviene. Schietto, quasi fastidioso (provochi?), ma ti dice quel qualcosa che vuoi sentirti dire, in cui non hai il coraggio di credere. Ma se lo dice lui (e ha –magari- quell’espressione strafottente), ci credi anche tu.
    Parlare con Sakuya è difficile. Lo è sempre stato.
    E ci sono volte (e sono sempre, da un po’ di tempo) che è proprio impossibile. Yuki preme una mano sugli occhi e inspira (lento). Baka. Non capisce perché si ostina (lo sai, no?) a chiamarlo; ogni volta, la voce della segreteria e i suoi messaggi. Lascia sempre messaggi, discorsi interi rotti e ripresi. Solo messaggi; e lunghi silenzi. Con la sensazione palpabile del respiro di Sakuya che si affievolisce piano. Si è sentito stupido tante volte; parlare con una cornetta. E pensare, ragionare, progettare. Chiedere. Perché a Sakuya si chiedeva sempre qualcosa, e da un momento all’altro ci si aspetta che lanci la sua sfida.
    Sakuya vive tutto come una sfida.
    Ma ormai è un mese. Un mese e Sakuya non è più uscito dal suo appartamento. Lo sanno, oh sì, lo sanno che è lì. Ma è come se non ci fosse. Non apre la porta se lo chiamano, non risponde al telefono. Yuki lo vede, l’appartamento. I piatti (pochi) nel lavello – abbandonati; i fax sul pavimento (quanti gliene ha mandati? Cento, forse centocinquanta. Di tutti i generi: lavoro, provocazioni, domande…Anche minacce. Inutili) e le veneziane abbassate. Sakuya non le alza mai; e la luce è una lama sottile che taglia una stanza sempre fredda (troppo fredda).
    Yuki ha preso l’abitudine di passare da lui prima di rincasare. Ritira la posta (sempre poca) e suona. Una sola volta. Un trillo e poi aspetta. Anche se lo sa che Sakuya non apre la porta. Non la apre mai.
    E non risponde al telefono. Ma è in casa, lo sa bene. E vuole (maledetto) ricordargli che di loro –di me- non potrà liberarsi con tanta facilità. E allora telefona. A qualsiasi ora, fregandosene se può svegliarlo perché sono le quattro di mattina ( riesci a dormire, Sakuya?). Tanto lo sa che lo ascolta. Il nastro è sempre al suo posto e la segreteria è inserita. Yuki parla, e Sakuya (lo vede) è lì, seduto sul pavimento. E ascolta.
    Ecco: adesso storce la bocca; e poi si massaggia la testa. Lo fa sempre quando è infastidito. E le proteste di Santa sono fastidio. Perché è stufo di aspettare e vuole suonare (se non si decide, suonerò lui).
    Yuki ridacchia. Ma il nodo in gola non se ne va. Perché Sakuya non alza mai il ricevitore; perché Sakuya a quella risata (ad una risata) non si vuole unire; perché Sakuya è a terra (a pezzi) e non lascia che nessuno –assolutamente nessuno – gli si avvicini.
    Yuki non lo riconosce; e nei giorni passati a parlare al telefono ha sentito una morsa crescere nello stomaco, farsi strada nei pensieri banali e semplici e punzecchiare la mente in modo irriverente. Si affaccia, e subito lo ricaccia indietro. Ma no, è impossibile.
    Sakuya è uno di loro; Sakuya è il vocalist dei Lucifer.
    Lo conoscono. Hanno imparato a conoscerlo: quell’arroganza che provoca e dà sicurezza; il mezzo sorriso e la voglia di fare a pugni che ti prende (Santa!) quando ti guarda e di getta in faccia maledetto quello che sbagli. Sakuya provoca; ha sempre provocato. Sakuya non si ferma; non si lascia fermare. Quando vuole qualcosa fa di tutto: e la ottiene.
    Sakuya è Sakuya. E non può cambiare, vero? Non può farlo.
    Chiude la comunicazione. Non gli ha detto nulla, questa volta. Eppure (potrei giurarlo) sa bene che Sakuya ascoltava il suono amplificato del suo respiro. Lento e pesante nella cornetta, il battito di un cuore che martella in testa. Tu-tum; tu-tum; tu-tum.
    Era il suo respiro o il cuore di Sakuya? (Possibile?). No. Era la sua voglia di sentire Sakuya; perché Yuki preferirebbe dovergli prendere le spalle e sbatterlo contro un muro; preferirebbe dover urlare e sentire la gola secca tirare e far male e ritrovarsi afono per tre giorni; preferirebbe un labbro spaccato e il corpo a pezzi; preferirebbe….Qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa sarebbe meglio.
    Per riuscire a dare una scrollata a Sakuya; per tirarlo fuori da quell’appartamento (da se stesso).
    Per rivederti.




    *****







    [Le costruirò per te.
    È una promessa, va bene?
    Vedrai: te ne porterò mille]

    Sei un bambino, Sakuya.
    Sei proprio un bambino. Ma a lei andava bene così; non voleva molto da te. Gli bastava quel sorriso insicuro che le rivolgevi. La paura di non essere all’altezza (alla sua altezza).
    Avevi paura, Sakuya.
    Perché sei un bambino. Un bambino che gioca a fare l’uomo; e sa sedurre e sfidare e sbattere in faccia al mondo (a un mondo sbagliato) che può farcela anche da solo. Non hai bisogno di aiuto, vero Sakuya?
    Ma a lei il bambino lo hai lasciato vedere.

    [Voglio che mi insegni.
    Ha un bel suono; mi piace.
    È …seducente]

    Ricordi che ridevi, Sakuya?
    Ridevi e lei ti guardava. E i capelli attorno al polso e la testa accennata di lato.
    Ridevi Sakuya. E di quello che avrebbe detto la gente non ti importava niente (Dovrebbe? Glielo chiedevi. Ma la risposta non la volevi mai ascoltare. Tanto – dicevi –poi faccio di testa mia. Lo sai.).
    A Yuki e agli altri piaceva. A loro andava bene così.
    Perché tu (sì, Sakuya: proprio tu) eri felice.

    [Lasciami stare qui.
    Non mandarmi via.
    Voglio stare con te]

    Sei un bambino, Sakuya.
    E lei lo sapeva. E ti ha preso in giro. Come si prende in giro un bambino. E tu (bambino) la bugia non l’hai vista, vero Sakuya? Tu ci credevi davvero.
    E le gru (adesso) le hai bruciate.
    Perché ti ha preso in giro. Ti ha detto una bugia. E forse è stata tutta una bugia. Perché un bambino non accetta che qualcosa faccia male, vero Sakuya? Meglio dare la colpa a lei.
    È facile, Sakuya.
    Ti ha mandato via.
    Ti ha fatto una promessa e – lo sapeva (lo sapevi) – non poteva essere vera. Dagliela tutta, la colpa, Sakuya.
    Perché sei un bambino, Sakuya. E non lo vuoi capire.



    Continua

     
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  2. Lee-chan
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    *-* bellaaaaa....^^
    E sono davvero curiosissima di leggere il seguito...xD
    Mi piace anche come hai descritto Sakuya...**

    Continua presto...*ç*
     
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  3. Anissa9
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    Bonne soir!
    Per prima cosa, volevo ringraziare tutti colore che hanno cliccato sulla mia storia, anche se fosse stato solo per richiudere dopo due secondi.
    Per me, e comunque dimostrazione di interesse e quindi di gentilezza da parte vostra.
    In secondo luogo, vorrei ringraziare Lee-chan per il commento che mi ha lasciato. Sono molto felice che questo mia storia incontri il tuo gusto; e soprattutto che questo Sakuya, così strano e fragile, sia di tuo gradimento.
    Terza e ultima, ma non per importanza, comunicazione riguarda la velocità di aggiornamento. Posso garantire che la storia sarà portata a conclusione, ma i tempi di immediata realizzazione non sono assicurati.
    Può essere un deterrente, me ne rendo conto. Ma impegni lavorativi e universitari mi hanno costretta a sospendere a tempo indeterminato qualsiasi lavoro avessi in corso.
    Questo NON significa assolutamente la cessazione di un qualsiasi aggiornamento; solo l'avvertimento che potrebbero passare anche svariati mesi fra un aggiornamento e l'altro.
    Detto questo, e ringraziandovi nuovamente, vi lascio il secondo capitolo.




    2. Parlami


    Santa non ha mai avuto molta pazienza.
    Non ce la fa a vedere qualcuno starsene con le mani in mano e piangersi addosso. Preferisce farsi male e provare il tutto per tutto. Santa è fatto così; e i suoi amici lo sanno.
    Santa non ha pazienza (se non con la musica. Ma la musica è una donna da corteggiare) e la porta (di acciaio) sbatte e rimbomba e non cede e Santa la pazienza (poca) che ha la sta perdendo del tutto.
    Perché non capisce (non accetta) che Sakuya se ne resti chiuso lì dentro. E non parli. A lui, a Yuki, a nessuno. Perché in fondo (ma non lo direbbe mai) a Sakuya si è affezionato troppo. E gli fa rabbia e gli fa male quel bambino che gioca a fare l’uomo e non sa nemmeno cosa significa esserlo, un uomo.
    Santa non è un uomo; ma non si ritiene nemmeno un moccioso.
    Quando Yumi lo ha tradito si è arrabbiato, ha urlato e ringhiato, si è ubriacato e Yuki lo ha portato a casa di peso. Ho pianto, quella volta. Perché Santa di Yumi era (è) innamorato; e vedere una donna (la tua) nelle braccia di un altro…Kami!
    Ma arrabbiarsi è giusto. E’ normale. Ti devi arrabbiare; e aver voglia di piangere e di prendere qualcosa e buttarlo per terra e di urlare e di prendere a pugni la prima persona che ti passa davanti.
    Arrabbiarsi è giusto.
    Ma Sakuya non si è arrabbiato.
    Sakuya ha solo ascoltato: Yuki che (per caso) leggeva la lettera; le parole che si spengono un po’ alla volta, le mani che (antipatiche) diventano fredde e senti lì, in fondo allo stomaco, come un crampo. E vorresti smettere e dire che, in fondo, sono solo parole. Si può cambiare tutto. C’è tempo per cambiare tutto. Ancora tempo.
    Yuki aveva letto sempre più piano, e lui si era accorto delle mani che tremavano e della voglia (forte) di piangere, gettare per terra le bacchette e…E non lo sa.
    Forse solo poter scoppiare a ridere e dire: bello scherzo. Perché doveva essere uno scherzo – ma non lo era.
    Santa ci aveva sperato fino alla fine, che fosse uno scherzo. Ci vorrei credere ancora. E batte forte i pungi sulla porta e grida e impreca. Perché lo sa: Sakuya se ne sta dentro, e dentro non ci vorrebbe far entrare nessuno. Ma Santa è stufo di aspettare; e di pazienza non ne ha mai avuta molta.
    Ci si consumerà le mani, su quella porta; lo ha deciso. Ma Sakuya dovrà aprire (non sei sordo! Lo so che mi senti! Sakuya! Baka! Apri questa maledetta porta!). O aprirà o la sfonderà.
    Perché Santa lo rivede lì in piedi, nello studio di registrazione. Lo vede diventare pallido e tremare (lui! Lui che ti guardava spavaldo anche con la febbre; lui che ti dice – e la voce non trema, oh no - ce la possiamo fare. Lo voglio). E basta un istante: Sakuya non è può con loro; ne resta il corpo che si muove a scatti. Il microfono scivolare al suo posto; la giacca raccolta in un fruscio (assordante. Troppo), il casco e la porta.
    Non lo ha fermato. E non riesce a perdonarselo.
    “Sakuya!
    Io non me ne vado! Hai capito? Non me ne vado!”
    Non me ne vado. Perché Santa lo stesso errore due volte non lo fa – non mi freghi più. Non avrebbe dovuto lasciarlo andare così. Loro – lui -. Sarebbe bastato un istante, Santa lo sa bene; lo rivede (lento, rallentato): alzarsi e stringerlo. Stringerselo forte contro il petto e tenerlo se si ribella e stringere di più se non reagisce. Stringerlo e basta. E ricordarsi (sentirlo) il corpo di un bambino di diciassette anni, le ossa (sottili) e la muscolatura che accenna timida la propria virilità.
    Stringerlo e tenerlo lì, al sicuro. Protetto.
    E farglielo capire (che lo voglia o no) che non è solo, che loro – lui - ci sono. Ci saranno finchè vorrà (e anche dopo). Santa continua a colpire la porta. Un pungo, e la mano sale a fermare (contenere) le spalle che tremano. Un pungo, e la testa di Sakuya premuta contro il suo collo (costretta). Un pungo, e iniziare a cullarlo come un bambino troppo piccolo per capire e che ha solo paura.
    Santa lo sa bene: Sakuya ha paura. Una folle fottuta paura. È giusto. Va bene aver paura; è normale. Ma non così. Non sbattere fuori tutti e restare a farsi del male, a gettarsi addosso pensieri e colpe che non ci sono. Perché – purtroppo – le cose accadono e basta. Che tu lo voglia o no.
    E le promesse e le sensazioni e tutti i bei sogni…Stronzate!
    Se una cosa deve succedere, succede. E tu non puoi farci nulla. Puoi solo lasciarti cadere a terra e sperare che passi. Passi e non faccia troppo male.
    Ma Santa sa una cosa: Sakuya è un bambino. E per un bambino il male è solo male. Né tanto né poco. Solo male; e il male, i bambini, se li mangia.
    Ma non Sakuya.
    Santa non glielo lascerà mangiare. In un modo o nell’altro, non glielo lascerà mangiare.



    *****





    [Promettimelo.
    Niente bugie.
    Promettimelo]

    Rideva.
    Lei rideva e la mano (pallida) ti sfiorava una guancia. Le piaceva seguire il contorno (infantile) del tuo viso. Diceva: è bello. E di notte, nelle ombre, sembrava una bambina.
    Te lo ricordi, Sakuya?
    Ti piaceva guardarla, di notte. Quando la stringevi forte e tu (bambino) avevi paura di farle male. Avevi paura di vederla sparire. E così – lo scoprivi lento – non ricordavi di esserti mai sentito.
    E per una volta l’amore lo facevi perché lo volevi. Non c’erano soldi, e falsi respiri e parole che sfuggono in una commedia – e non sapeva di marcio, quella vita.
    Per una volta, ti ricordi Sakuya, l’amore lo facevi perché avevi voglia di farlo.
    E non dovevi preoccuparti di mascherare qualcosa.

    [Non sono un bambino.
    Non ho paura.
    Posso stare con te]

    Rideva, Sakuya.
    E a te piaceva. Perché ti faceva sentire (strano, ma quella parola bussava nella testa) a casa.
    Anche se la stanza era una stanza d’albergo; anche se il camper sobbalzava e la cuccetta era piccola e calda e l’odore di benzina ti dava la nausea.
    Anche.
    Perché non era cambiato molto, per te. Non ci avevi voluto pensare davvero. Le cose belle devono durare – ripetevi. E (perché no?) una cosa bella sarebbe accaduta anche a te. Lo volevi davvero, vero Sakuya?
    Ti aveva messo in guardia, lei.
    Su tante cose. Anche sul male. Perché ti aveva detto che avrebbe potuto farti male, vero Sakuya? Ma i bambini (tu) non ascoltano e giocavi a fare l’uomo (maturo).
    E dentro pregavi che quelle braccia non sparissero; che la voce avesse sempre una bocca da baciare; che il freddo (e lo sentivi spesso, freddo, vero Sakuya?) se ne andasse dentro il corpo.

    [Non lasciarmi anche tu.
    Non voglio stare solo.
    Per favore]

    Hai paura di restar solo, vero Sakuya?
    E hai fatto crescere indifferenza e strafottenza. Hai deciso (bambino) che dovevi essere un uomo. E un uomo non chiede aiuto; non chiede niente.
    Tu non chiedevi, e quello che cercavi (una spalla che ti sorreggesse; due braccia che ti stringessero) non lo avevi ancora trovato.
    Donne che ti baciavano ce n’erano. Donne da portarsi nel letto e soddisfare. Per avere i soldi di finire il mese; e ti dicevi che tanto i sogni non ci sono.
    Avevi sedici anni, Sakuya. E facevi l’uomo.
    Anche se, dentro, il bambino piangeva e piangeva. E voleva solo sentire ti voglio bene.



    *****





    Misa è bella.
    E una donna che sa di essere bella è pericolosa. E Misa è bella e pericolosa. Perché basterebbe una parola (una sola) e tutto quello che è stato costruito in un anno di lavoro – puff! - andrebbe in fumo.
    Ma Misa è anche la soluzione. L’unica (ultima) speranza che rimane.
    Voleva bene a Sakuya.
    A modo suo; per capriccio e interesse. Per divertimento. Ma gli voleva bene. E non potrà dire no. Non può farlo, vero? Ci hanno messo tanto, per ritrovarla. E Sakuya se ne resta chiuso nel suo appartamento.
    Sono preoccupati, dannazione. Li sta facendo preoccupare (troppo). E Misa può risolvere la situazione (può, vero?).
    Era la sua amante; deve avere le chiavi del suo appartamento. Deve! O forzeranno la porta, lo hanno già deciso. Sasaki-san non approva, ma non importa. Sakuya è lì dentro, e sta male.
    Non lo sapete, se sta male.
    Towa stiracchia un sorriso. Oh, certo. Sakuya sta benissimo. È ovvio; salta le prove e non risponde al telefono così, per gioco. Sasaki-san non è cattivo, e in Sakuya e nei Lucifer ci ha creduto subito. Ci crede ancora. Ma non riesce proprio a capirla, la testa di Sakuya.
    Towa ripiega con cura il tovagliolo. La testa di Sakuya. Dev’essere un groviglio di pensieri; sempre. Non è facile capire quello che pensa.
    Ma forse Misa qualcosa lo aveva capito. Perché Sakuya andava, quando lei lo chiamava. E tornava con gli occhi acquosi e un profumo forte di donna. Non era felice, Sakuya.
    Lo sapevano, ma all’inizio non si erano azzardati a interferire. Sakuya era il vocalist; solo il vocalist. E nel gruppo entrava e usciva senza dare spiegazioni.
    Poi. Poi qualcosa è cambiato. E Sakuya era dentro. E trascinava e sfidava e provocava e si divertiva a esasperarli. Perché voleva che tirassero fuori qualcosa. Quel qualcosa che sono solo loro.
    Sakuya non è il leader; ma senza Sakuya i Lucifer non ci sono. Se ne resta in disparte, aspetta il momento opportuno, spiazza con una sua frase (una decisione. Irremovibile) e se ne va.
    Sakuya è timido.
    Towa si accorge di saperlo nel guardare Misa, la sua bellezza matura e provocante. Quando c’era Misa, Sakuya era sfuggente. E lontano.
    E adesso sta tornando dietro al muro.
    “Kazuto-san.
    Posso sapere cosa vuole da me una persona che non conosco?”
    Misa ha una bella voce; un tono basso e leggermente arrotolato su alcune parole. Deve aver vissuto all’estero; o deve esser abituata a parlare in una lingua diversa dal giapponese. E sa giocare bene le carte: diretta, senza essere aggressiva.
    “Sakuya Okouchi”
    “Sakuya Okouchi?”
    La risata di Misa è sottile, quasi un singhiozzo. E a Towa Misa non sembra più bella. Solo una donna arrabbiata e delusa. Forse amareggiata. E ha paura di aver usato le parole sbagliate, di aver perso prima ancora di iniziare a giocare. Una brutta brutta sensazione.
    “Conoscevo una persona, con quel nome.
    È morto mesi fa”
    Towa nasconde il sorriso nella tazza da tè. Tasto dolente. Adesso capisce perché Yuki ha insistito perchè andasse lui, a quell’appuntamento. Santa è troppo impulsivo, e Atsuro troppo condizionabile. Per quanto riguarda Yuki…Il discorso è semplice: non è adatto. E basta. Towa non riesce a immaginarselo recitare in quel contesto. No, sono io il più adatto.
    “É un vero peccato” sussurra noncurante, e lo vede (bene) il labbro di Misa tremare e venir pizzicato – è un attimo, ma lo vede. “Volevo comprare il suo appartamento, ma…Nessuno sa dirmi dove trovare le chiavi”
    “E perché pensa che io lo sappia?”
    Towa permette un gesto vago alla mano e un sorriso che lascia sottintendere più di un discorso. È bravo nei gesti, Towa. E Yuki aveva ragione a scegliere lui: con le donne, ci vogliono le azioni. E Towa sa muoversi assieme per provocare e sedurre. Affascina. E Misa può evitare la trappola, ma non l’orgoglio di donna stuzzicata.
    E la chiave viene sbattuta lì, fra le ceramiche. Un piccola chiave con un filo di plastica (blu) a contrassegnarla.
    Misa è bella. E a Sakuya, a modo suo, ha voluto bene.
    Ma Sakuya era il giocattolo di turno; l’amante giovane e disperato, pronto alle sue parole. Sakuya era il proibito, l’eccitazione di un corpo ancora acerbo e l’assenza di inibizione che vi aveva trovato.
    Misa sceglie bene i suoi amanti: raffinati e piacevoli. Tutti con un qualcosa che li rende unici, quasi speciali. Sakuya era stato l’incognita. Troppo maturo per il suo corpo; troppo serio per la sua età. Misa aveva avuto (subito) l’intuizione che avesse bruciato le tappe. E non le era interessato.
    Sakuya le regalava l’eccitazione e l’imprevisto; la passione e l’indifferenza di chi è costretto. Pensava di averlo legato a sé, Misa. Lo avrebbe voluto stretto e succube.
    Ma le era sfuggito fra le dita. Lasciandole una chiave che – lo sapeva – lui non conosceva e Misa non avrebbe mai usato.
    “Era…importante?”
    Towa mastica la parola, mentre ripone (attento) la chiave in tasca. Avrebbe dovuto ringraziare, salutare e andarsene. Anche solo andarsene. Ma non fare domande. Non fare una domanda come quella. Perché la vita di Sakuya, il prima, loro non la conoscono. E Towa (lo sente) è una vita che Sakuya vorrebbe solo dimenticare.
    Non doveva farla, quella domanda. Perché adesso la risposta non la vorrebbe sapere, e deve ascoltare. Mentre Misa accende lenta una sigaretta e inspira piano il fumo.
    “Importante?” e la voce trema – isterica – “Un buon amante. Niente di più” e le altre parole (mi piaceva. Sì, gli ho voluto bene. Ma tu, voi, lo avete portato via. E io l’ho lasciato andare. Perché non lo avevo mai visto così. Sembrava vivere) le inghiotte con il fumo, mentre infila gli occhiali da sole e si allontana senza salutare.


    Continua
     
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